BRUCE SPRINGSTEEN, Devils & Dust (Sony, 2005)

Alla luce dei suoi cinquantasei anni e dei suoi trentadue di carriera, sarebbe facile bollare Springsteen come uno di quei rockettari senza arte né parte che fanno uscire lavori manieristi solo per sfruttare un nutrito zoccolo di fan duri a morire. Sarebbe facile e comodo ma si tratterebbe di parole al vento per sentito dire senza aver lasciato adito alla musica, ai testi e alle sensazioni. Si perché nonostante tutto, non si tratta di un artista ruffiano con l’hobby del compitino ma di un uomo onesto che esce di casa solo quando ha qualcosa da dire. Ed è per questo che in questo 2005 poteva pubblicare solo un disco come “Devils & Dust”.

Sia chiaro, non è un lavoro facile, anzi. Se “The rising” rappresentava la volontà di alzare la testa e continuare a vivere grazie ad una musica ed un rock energico e vitale, qui Springsteen si fa accompagnare da Brendan O’Brien – già produttore del penultimo disco e qui anche a basso – e da Steve Jordan – batterista di Patty Scialfa, a.k.a. lady Springsteen – e abbraccia il country e il folk che aveva già utilizzato nel 1997 per “The ghost of Tom Joad” (non parliamo di “Nebraska”, più che un disco quello è un miracolo). Arrivano quindi undici canzoni dal respiro dimesso e di retroguardia che, partendo da Woody Guthrie, riscoprono la tradizione americana senza perdersi negli orpelli che hanno gonfiato il precedente lavoro acustico – qui il merito è della spesso bistrattata mano di O’Brien, che rende il disco scarno e diretto – toccando tematiche immaginarie da sempre care a Springsteen. Si parte dalla guerra e le incertezze della title-track per arrivare a pezzi come “The hitter” – che parla della vita di un pugile che vive nelle backstreets – “Reno” – che racconta dell’incontro con una prostituta – “Jesus was an only son” – la religione vista da un ateo – “Silver Palomino” e “Black cowboys”, con il ritorno delle persone che vivono alle spalle del sogno americano negli stati del sud.

Sempre parlando di musica, l’idea che pervade l’ascolto del disco è che certamente non si è puntato sulla freschezza e l’immediatezza, ovvio che scrivere ballate da cinque minuti non è sintomo di leggerezza, ma è proprio questo uno degli aspetti che più si apprezzano in “Devils & Dust”: cioè che Springsteen non si prende in giro e non prende in giro il suo pubblico mostrandosi per quello che è, un cinquantenne che aveva delle storie da raccontare e le aveva immaginate raccontate esattamente così, senza orpelli o incisività ma con toni riflessivi e dimessi, con una chitarra acustica e degli arrangiamenti che altro non fanno che incrementare il clima intimista del disco, che anche quando si concede parentesi più tipicamente rockettare – come in “All the way home”, “Long time comin’” – o festanti – “All I’m thinkin’ about” – non rinuncia al realismo narrativo e agli scenari acri e desolati alla “Dust Bowl Ballads”.

Che alla fine si tratti del classico disco alla Springsteen? Sì, può anche darsi ma non ci sono problemi, perché stiamo parlando di una persona che non ha mai fatto segreto di amare la tradizione musicale del suo paese e che non perde tempo – o meglio, non più data l’eclissi ispirativa del 1992 (“Human touch” e “Lucky town”) – in macchiette o pose anacronistiche giusto per raschiare il fondo di un enorme barile, e alla luce di questo vediamo come “Devils & Dust” sia un disco dove vive l’anima di una persona che si dimostra ancora viva e con tanta voglia di percorrere strade che molti hanno rinunciato a percorrere. Non importa che lo si faccia in un modo desueto e antiquato, alla fine importa che le canzoni che Springsteen andrà cantando in solitaria nel suo prossimo tour italiano sono di qualità superiore alla media e non sfigurano accanto al suo repertorio, certo, niente di paragonabile a “Born to Run”, ma avete mai visto un Peter Pan di cinquantasei anni?

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