BEACH BOYS, Pet Sounds (Capitol, 1966)

Sì, va bene, tutti sappiamo le gesta del buon Brian Wilson il “pazzo”, le sue cadute rinascite (ri)cadute nella droga, la sua paranoia, il suo senso di inferiorità nei confronti dei contemporanei baronetti Lennon/McCartney, il suo esilio, la sua aura mitica inattaccabile. Ma perché un album come “Pet Sounds” continua a dover essere obbligatoriamente citato in ogni storia del rock? Perché è un gran bell’album, dovrebbe essere la risposta immediata. Ma può veramente bastare “solo” questa affermazione? Bisogna cercare di comprendere appieno il significato stesso di un’operazione musicale come quella dei Beach Boys.

Tipico quintetto venuto alla luce agli albori del R’n’R, i tre fratelli Wilson, Mike Love e Al Jardine compongono musica per teenagers, per la bubblegum-generation. Il loro surf-rock è adatto allo sbaciucchiarsi acerbo e liberatorio nei drive-in. Ed ecco dunque che il senso dei Beach Boys inizia già a mutare. Tra la strada che porta ad una musica aliena, sperimentatrice, ostica e quella che porta al commercio come anima della società i “Wilson Boys” non hanno timore di scegliere la seconda. Diventando, forse anche loro malgrado, a distanza di quarant’anni simboli di un’epoca, non a caso ripetutamente citati in quel glossario degli anni ’60 che è American Graffiti, capolavoro cinematografico di George Lucas. Ed è sul loro attecchimento sullo strato più borghese della società che riesce finalmente bene il paragone con i Beatles.

Questa digressione non deve comunque far perdere di vista l’obiettivo principale della recensione: lodare e innalzare agli onori “Pet Sounds”, l’album che segnò la rovina definitiva della mente instabile di Brian Wilson, il loro primo insuccesso commerciale. Insuccesso del tutto incomprensibile, visto che l’opera non presenta in sé alcun germe avanguardista, portando semplicemente alle estreme conseguenze il discorso sul pop intrapreso in precedenza, acuendone in maniera netta i riflessi elegiaci. Basterebbe l’attacco dell’ormai celeberrima “Wouldn’t It Be Nice” per genuflettersi di fronte a questa lezione di musica popular: tintinnii che sembrano provenire da paradisi (artificiali?) traversati da putti armati di chitarra e batteria. L’uso dei coretti, che da sempre contraddistingue l’approccio musicale della band perde qui gran parte della sua componente carnale, sovrastando angelicamente i tempi spezzati, i rallentamenti e le improvvise frenesie della voce di Brian. Tutto questo mondo viene declamato in due minuti e mezzo: nulla risulta sovraccarico o eccessivamente strutturato, anzi la linearità e l’essenzialità rimangono pietra fondante dell’architettura musicale del quintetto. Ma sarebbe ingiusto relegare a questo straordinario brano il compito di rappresentare l’intera epopea musicale presente in quest’album: errore commesso anche dalle penne più argute e attente, e che inficia in buona parte la comprensione stessa dell’importanza capitale di questo lavoro.

“You Still Believe in Me” è il pop nel suo mènage pacato e rilassante con la strumentazione classica, tra organi e clavicembali, eppure così attaccato alla contemporaneità (e all’ironia, o follia gentile, come preferita chiamarla) della mente di Wilson, rappresentata da clacson e campanelli d’ogni genere. Stessa sensazione di intercomunicabilità tra le attitudini musicali che si respira nella dolenza infinita e inconsolabile di “Don’t Talk (Put Your Head On My Shoulder)”. Quando alla voce si esercita Mike Love le acidità che stanno prendendo piede nella scena musicale che li circonda – anche e soprattutto in California – attaccano il corpo strumentale del combo producendo quella perla che risponde al nome di “That’s Not Me”.

E’ stupefacente come qualsiasi diramazione musicale, nella (ri)lettura dei Beach Boys si adatti allo schema mentale di questi ragazzotti del ceto medio statunitense, finendo per diventare parte integrante del DNA della band. E su questa lunghezza d’onda si assestano anche brani come la delicata “Let’s Go Away For Awhile”, “Sloop John B.” (per chi scrive una delle canzoni migliori di sempre partorite da Brian Wilson), “I Know There’s an Answer” e l’avvolgente e scatenante “Here Today”, sempre sul punto di deflagrare. La title-track è semplicemente la dimostrazione ultima del genio di Wilson, spesso e volentieri non compreso per via di quella sua abitudine a rendere tutto melodia, tutto facilmente decodificabile. Malattia dell’uomo, dirà qualcuno, pregio immane oserà arguire qualcun altro. Io non mi pongo su nessuna delle due linee di pensiero; l’unica cosa che ho voglia di rimarcare è la grandezza di quest’album dai mille colori, a metà tra la melanconia delle prime foglie morte autunnali e il verde quasi virgineo dei lampi di sole primaverili.

Prima i Beach Boys ci avevano regalato sei anni di estate, in seguito arriverà l’inverno, freddo, freddissimo, che si porterà via due dei fratellini Wilson lasciando in vita solo Brian. E proprio lui, il genio pazzo (ma quale genio non lo è, secondo svaccata abitudine della cultura occidentale?), quest’anno ci ha regalato altri due scrigni di perle, uno nuovo di zecca e uno, “Smile”, recuperato dagli oceani della memoria.

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