BLACK DICE, Creature Comforts (Fat Cat, 2004)

Ovvero, come cercare di semplificare il bello rendendolo vacuo. Tanto splendido era apparso il mosaico di forme e sostanze che aveva preso corpo in “Beaches & Canyons” quanto inutile sembra ora il susseguirsi di suoni, borborigmi e pause acustiche che si pone come file rouge di questo secondo lavoro sulla lunga distanza (la band ha la maledetta fissazione di spargere EP in giro per il mondo neanche si trattasse di polline).

L’ouverture affidata alla chitarra, a cascate di suoni e a rintocchi asimettrici sfiora più volte la pretenziosità più totale; la casualità musicale figlia delle sperimentazioni di John Cage non acquista alcuna forza nella struttura sonora imbastita dalla band di Brooklyn. “Treetops” e “Island” scompaiono velocemente dalla memoria, attraversate da boati, rimbombi e ticchettii, mentre finalmente in “Creature” è possibile riscontrare un barlume di genialità. La rilettura di un ambiente naturale – versi di animali, in particolar modo – è sovrastato e destrutturato da un lungo riverbero, così come un apparente frinire di grilli si deforma fino a diventare lo stantuffo di un treno a vapore. Il mondo naturale e quello creato dall’uomo cercano vie di convivenza forzata, in un duello sonoro che acquista ora un senso ulteriore, fra riflessi di organi, percussioni sotterranee e suoni miscelati con sapienza.

I tour passati sul palco insieme agli Animal Collective non sono passati invano. Peccato che si tratti della classica eccezione atta a confermare la regola, già con “Live Loop” si torna nell’anonimato più totale per sprofondare nel narcisismo e nella mancanza assoluta di idee con “Skeleton”, che vorrebbe proporsi come visione dell’oltretomba senza riuscire minimamente nel compito. “Schwip Schwap” è l’ennesimo intermezzo, stavolta più divertito, a metà tra una fiera campestre e l’epica teutonica; non se ne sentiva assolutamente la necessità, ma quantomeno non annoia (e visto il resto dell’album è già tanto).

La conclusiva “Night Flight” riprende il tema guida dell’open track portandola all’estremo, in un flusso di suoni che ricordano tanto il buon vecchio Amiga quanto il mitico C1P8 di lucasiana memoria, e andando a chiudere un album brutto, prolisso e privo di idee. Stroncare è il mestiere più ingrato del recensore, stroncare in seguito ad una delusione diventa un compito quasi insostenibile. Non resta che sperare nel futuro, perché sarebbe un peccato veder buttata al vento l’esperienza di un album come “Beaches & Canyons” a favore di una ridicola sequenza di suoni che appare veramente arduo definire avanguardia.

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