GEORGE HARRISON, Brainwashed (Capitol, 2002)

E’ strano recensire, e prima ancora ascoltare, un album uscito ad un anno dalla morte del suo compositore: ancora più strano quando l’album in questione è l’epitaffio di un uomo che prima ancora di essere un musicista è stato un’icona per una (più di una) generazione. George Harrison non è certo un nome da nulla, su questo non ci sono dubbi. “Brainwashed” è il suo addio al mondo e ai suoi fans, ed è un addio incredibilmente vitale, divertito, a tratti, come nell’iniziale “Any Road”, addirittura spensierato.

Il lavoro è stato portato a termine, in post-produzione dal figlio Dhani e da Jeff Lynne, e viene ovviamente il dubbio che il materiale sia stato almeno in parte modificato. Ma, impossibilitato a sciogliere il dubbio, preferisco evitare di pensarci. Musicalmente, come ho già scritto, è un album veramente molto godibile, e Harrison si getta in blues classici come l’energica e trascinante “Vatican Blues (Last Saturday Night)”. Il gusto per la melodia che ha sempre accompagnato il suo nome esplode con sapienza nella ballata “Pisces Fish”, che riporta con la mente a tempi lontani.

La musica di Harrison sembra provenire da un altro mondo (e ormai purtroppo lo è), riuscendo quasi ad annullare trent’anni di musica, tale è la sua capacità evocativa e il suo radicamento nel passato. Una musica che guarda indietro, non avanti. Se questo è sinceramente, per quanto mi riguarda, da considerarsi un grave difetto, non posso fare a meno di ammirare la purezza compositiva di questo personaggio schivo, che ha raccolto (anche nella favola Beatles) meno di quanto meritasse in vita. Una musica corposa, quella di Harrison, tirata e all’antitesi rispetto alle mollezze dei lavori solisti di Paul McCartney, come dimostrano “Rising Sun” e la title-track, due degli episodi più riusciti. L’inconfondibile chitarra si fa sentire soprattutto in “Marwa Blues”, mentre resta da ricordare “Between the Devil and the Deep Blue Sea”, divertissement che riporta la musica di Harrison nella dimensione più giocosa.

E’ strano decretare la morte di un artista, strano decretare la fine delle sue pubblicazioni. Spero solamente che il nome di Harrison non si presti nei prossimi anni all’uscita indiscriminata di antologie e raccolte di inediti. E che il suo volto resti quello dell’interno del “White Album”, baffuto e ironico.

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