XIU XIU, Fabulous Muscles (Tomlab / Wide, 2004)

Una delle principali ed annose querelle nate con il mestiere del critico è stata l’accusa – mai velata, mai sotterranea, sempre esposta e visibile – di affezionarsi a tal scrittore, tal musicista, tal regista da perdere la concezione primaria di critica e lasciarsi influenzare dal proprio sentimento. E di fronte a questo la “società” dei critici spesso si dimostra imbarazzata, impaurita, quasi consenziente, desiderosa di dimostrare il contrario. Come se nella ripetizione o nel percorso di un artista non ci possano essere conferme ma solo ed esclusivamente cocenti delusioni.

Fortunatamente chi non si pone determinati – e infausti – paletti sa riconoscere la grandezza laddove si mostri con una forte carica autoriale. E’ questo il caso degli Xiu Xiu, passati in due anni da debuttanti di classe a certezze del rock contemporaneo. “Fabulous Muscles” appare fin dai primi ascolti l’ennesimo tassello di genialità posto da questo gruppo di persone (difficilmente quantificabile, visto che da album ad album il numero cresce come una piccola famiglia), ed è un album profondamente à la Xiu Xiu, riconoscibile in tutto, dal suono alle tematiche. Il mondo instabile, confuso e deteriorato mostrato con forza sia in “Knife Play” che in “A Promise” (meno in “Fag Patrol”, resoconto intimo di Jamie Stewart, dolente e acustica memoria di morte e desolazione, omaggio e amorevole ricordo personale del padre) ritorna qui con, se possibile, una lucentezza addirittura maggiore.

Quella che appariva precedentemente l’urgenza principale della band, destrutturare il dark e il post-punk attraverso pratiche d’avanguardia ed elementi elettronici, in “Fabulous Muscles” è la conclusione della ricerca, il punto di arrivo. L’incipit da videogame di “Crank Heart” si trasforma in deflagrazione pop attraverso l’ossessività di un’elettronica sporca e “I Luv the Valley Oh” è uno degli omaggi più palesi alla scena inglese dei primi anni ’80 (l’incedere e l’uso melodrammatico della voce riportano ai Joy Division di Ian Curtis), otre ad essere il brano dove è più semplice riconoscere le matrici rock e pop della loro musica. In fin dei conti ciò che sorprende in questo lavoro è proprio la cura della melodia, sempre straziata e mai ovvia, ma non più sotterranea come in passato, come dimostra in pieno l’esplosione di “Brian the Vampire”.

Permane l’amore per un’acustica dolente e disperata, qui riscontrabile nella title-track – e quanto è forte l’opposizione scarna e tremolante del brano ai “muscoli favolosi” che stanno pervadendo gli Stati Uniti in questi ultimi anni e che agognano assurgere a simboli della contemporaneità –. I riflessi orientaleggianti si fanno strada nell’incrocio tra elettronica soffusa e acustica di “Clowne Towne”, mentre l’avanguardia mantiene la sua carica in brani come “Little Panda McElroy”, “Nieces Pieces” e soprattutto “Support Our Troops in Iraq Oh!”, dove il mondo confuso di cui si faceva cenno all’inizio mostra il suo volto più crudele, avida macchina capitalista portatrice di guerra, distruzione e depravazione, distruzione del gentile e del melodico, violenta crasi di urla, rumori, riverberi, sporcizie.

L’album si chiude sulla disperazione di “Mike”, dove intuizioni classiche sono devastate da rumori, batterie furiose, improvvise comparsate di chitarra e tintinnii delicati, mentre la voce, vero strumento aggiunto di questo ensemble, mormora, dopo aver passato gli altri brani tra cadenze alte e smozzicate espressioni intimidite.

Gli Xiu Xiu sono ostici, assolutamente con accondiscendenti, coerenti sempre alla propria etica, da non sprecare. Perché descrivono un mondo unico eppure così verosimile, tragico eppure così delicato, dolce eppure così scorbutico e ansioso. La promessa che ci era stata fatta appena un anno fa è stata rispettata, riuscendo ad andare anche oltre le normali aspettative. Chissà dove ci condurranno ora questi “figli di film hongkonghesi”…

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