FAUST, Faust IV (Virgin, 1973)

I Faust sono, insieme ai Can, ai Tangerine Dream e ai Kraftwerk, il gruppo di punta della scena rock formatasi in Germania nei primi anni ’70: sovrastato nelle vendite da generi musicali come il prog inglese e l’hard-rock americano, il cosiddetto kraut-rock deve i doverosi riconoscimenti postumi ad un libro scritto da Julian Cope e all’influenza esercitata su band quali gli Slint, gli Oneida e gli Stereolab (tanto per fare tre nomi).

Formatisi nel 1971 ispirandosi ai suoni spettrali dei Velvet Underground, alle ossessioni dei Silver Apples e al gusto del non-sense e delle collage musicale proprio del genio di Frank Zappa, i Faust scrivono in appena tre anni un vero e proprio pezzo di storia: nel 1971 pubblicando l’esordio omonimo, seguito l’anno successivo dall’ottimo “So Far”. Nel 1973, subito prima di questo quarto volume, vede la luce “Faust Tapes”, schizofrenico e assurdo collage di spunti, intenti, idee, aborti: un album di difficile ascolto ma di assoluto valore.

E poi è la volta di questo “Faust IV”, che si apre, concettualmente, sulle note abrasive e snervanti di “Krautrock”: i Faust, ormai consapevoli del proprio ruolo, si buttano in un’orgia sonora di quasi dodici minuti, capace di scardinare qualsiasi convenzione musicale e di dare pieno sfogo alle intuizioni dei componenti della band, liberi di improvvisare e di far sì che la musica fluisca senza un’apparente struttura – in realtà molto più rigida e ragionata di quanto si possa esser portati a supporre -.

Nel corso dell’album queste lunghe perdite di coscienza, come l’ovattata e sussurrata “Jennifer” basata sul basso e le tastiere e pronta a trasformarsi in improvvisazione a metà tra l’elettronica e il jazz o come “Picnic on a Frozen River, Deuxieme Tableux” che mescola impressioni di Philip Glass a follie zappiane, si fondono con piccoli gioielli come la divertente e stralunata “The Sad Skinhead”, paradossale memoria della violenza che si adagia su un ritmo debitore del reggae. “Just a Second” è una cupa marcia elettronica squarciata dai suoni aspri della chitarra, “Giggy Smile” rende aliena una pacificante riflessione folk con l’innesto di folli suoni siderali, bizzarrie sonore e una voce ossessionante, “Laüft” è un breve intermezzo per organo e sintetizzatori, “It’s a Bit of a Pain” chiude l’album con un’altra ballata folk, anche questa destinata ad essere corrotta dalle macchine e dalla modernità.

L’elettronica per i Faust è il simbolo della contemporaneità, non apre squarci cosmici come accade ad esempio con i Tangerine Dream, non diventa icona mitteleuropea come nel caso dei Kraftwerk, non acquista il valore messianico che gli attribuiscono i Popol Vuh. Questo a dimostrazione della diversità di approccio musicale fra band della stessa area geografica: oltre ai già citati, è doveroso ricordare i Neu!, gli Amon Düül II e i Cluster. Un mondo musicale che va riscoperto e rivalutato perché, a veder bene, ha avuto un’eco assai superiore a quella sia del prog che dell’hard-rock: punk, new wave, industrial, no wave, noise e tutte le varie attitudini musicali derivate da questi aggettivi derivano, volenti o nolenti, dai Faust e dai loro compagni di avventura.

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