DANIEL JOHNSTON, Fear Yourself (Gammon, 2003)

“Fear Yourself” segna l’incontro fra due eccentrici personaggi del panorama musicale contemporaneo: Daniel Johnston e Mark Linkous. Il primo ci mette i testi e una scarna musica di accompagnamento, il secondo (noto ai più sotto il nome-band di Sparklehorse) cura gli arrangiamenti.

Ma occorre partire da più lontano: Daniel Johnston è una figura unica, che col tempo ha raggiunto un livello di mitizzazione raro nell’attitudine ben poco iconoclasta dei nostri tempi. Pazzo nel vero senso della parola (entra ed esce da cliniche psichiatriche) ha inondato all’inizio degli anni ’80 il mercato musicale con una mole impressionante di album autoprodotti, spesso solo in musicassetta.

Pezzi pregiati nei quali Johnston mostra un’intelligenza musicale rara e un’altrettanto rara riluttanza verso la forma canzone classica, pur avendo uno spiccato senso per la melodia. Ma la melodia in Johnston viene frustrata da brani per voce e chitarra, da cantati stonati su vecchi standard jazz. “Fear Yourself” è l’occasione di vedere mescolata l’irruenza artistica di Johnston ad una cura particolareggiata per gli arrangiamenti. Il rischio, ovvero quello di uno snaturamento dell’eccentricità del linguaggio di Johnston, viene fugato fin dal primo brano: la voce sgraziata con cui viene aggredito il rockabilly per ukulele “Now” è sicuramente figlio della mente poliedrica del cantautore e l’improvvisa mutazione del brano in invocazione elegiaca ne è la base ideologica.

“Syrup of Tears” è un’imponente e delicata ballata per strumentazione orchestrale, “Mountain Top” regala due minuti di sorridente pop-rock (con violino all’assolo), “Love Enchanted” ricorda il Bowie glam e gioca sul contrasto tra un arrangiamento strappalacrime e un testo stralunato, e sulle onde di frequenza del glam si aggirano anche “Must” (quanta purezza in quella voce senza effetti!!) e la raffinata e vibrante “Power of Love”, dove Johnston veste l’abito del narratore, in un gioco ad inseguimento con il pianoforte.

Lo scatenante impatto di “Fish”, con un ritornello azzeccato e travolgente, serve forse a spezzare il ritmo, a non incentrare l’attenzione sull’aspetto elegiaco dei brani di Johnston: diverse sono le facce di questo autore, e questo concetto sembra volerlo ribadire ad ogni occasione, come nell’ossessiva e liberatoria “Love not Dead” e nello splendido brano di chiusura “Living it for the Moment”, con la musica che segue una linea melodica e la voce che vi cozza contro, stonata, stirata, vagamente ubriaca. Anche se i veri capolavori che quest’album ci propone sono la profondità e l’intensità di “You Hurt Me”, pop pianistico della miglior fattura, la grazia disadorna di “Wish” e la poesia di “Forever Your Love”, dove l’orchestrazione si fa quasi mistica e la voce di Johnston assume la forza di un angelo caduto dalle volte del cielo e perduto in questo mondo di perdizione e disarmonia.

Una cosa è certa: “Fear Yourself” segna il ritorno di Johnston alla genialità e allo splendore di “1990”. E di questo dobbiamo ringraziare anche il signor Linkous.

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