BOB DYLAN, Street legal (Columbia, 1978)

“Impiegammo una settimana per realizzare Street Legal: lo mixammo quella seguente e quella dopo ancora lo fecimo uscire. Se non fossimo riusciti a farlo tanto in fretta, non sarebbe mai uscito, perché dovevamo assolutamente tornare on the road”.

Questa affermazione di Dylan ci fa capire molte cose sull’album qui preso in questione. La band che partecipò alle registrazioni di Street Legal era reduce assieme al suo leader da una lunga tourneè in oriente (di cui abbiamo testimonianza nel grande live “at Budokan”), che sarebbe poi proseguita in Europa; una sorta di anticipazione di quello che negli anni 90 sarebbe stato il “neverending tour” che rilanciò Dylan a livello mondiale.

Se ascoltiamo Street legal non possiamo fare a meno di constatare che si tratti di un “lavoro incompiuto”. Le 9 canzoni che lo compongono sono di indubbia qualità, ma risentono di arrangiamenti approssimativi e di una registrazione alquanto mediocre. Il suono che ne esce è confuso e ripetitivo e non rende giustizia a canzoni che meritavano, forse, un trattamento migliore. La colpa, oltre alla già citata fretta che caratterizzò le registrazioni, è di una band grandiosa nelle performance live, ma senza dubbio meno gestibile una volta in studio. Il “peccato” di Dylan, se così lo vogliamo chiamare, fu di voler far suonare la band in studio come se si trattasse di un concerto. E’ evidente che all’artista in quel periodo premeva di più essere notato dal vivo che realizzare un album da studio.

Il disco è definibile a livello stilistico una sorta di crocevia: folk, blues, e molto più marcatamente, il pop. “Changing of the guards”, pezzo iniziale e forse tra i più riusciti, è caratterizzato da buonissimi passaggi di organo hammond (che vanno però persi in una registrazione, come già ribadito, confusionaria) su cui si snodano versi di toccante poesia sociale, o meglio anti-sociale (“desperate men, desperate women divided, spreading their wings ‘neath the falling leaves”). Il country-blues di “New Pony”, decisamente uno dei punti più kitsch della produzione dylaniana, non aggiunge nulla all’album.

La bella ballata romantica “No time to think” è invece un azzeccato brano dalla cadenza ritmica tranquilla ed allo stesso tempo trascinante (bello l’uso dei cori nel ritornello che richiamano atmosfere quasi gospel). “Baby stop crying”, giustamente scelto come singolo da estrarre dall’album, suona di già sentito ed è un pezzo “born to sale” (anche se poi, a dire la verità, dal punto di vista commerciale si rivelerà abbastanza fallimentare). “Is your love in vain”, il brano meglio interpretato (ed anche quello più curato, in tanta confusione, dal punto di vista degli arrangiamenti) si attanaglia perfettamente al contesto romantico dell’album.

“Senor (tales of Yankee power)” è la canzone più bella, tematicamente parlando, dell’intero disco; una ballata di accusa contro il razzismo statunitense nei confronti dei centro e sud americani. Negli ultimi tre brani c’è poco di nuovo da cercare (se non un abbondante uso di fiati, saxofono in particolare), possiamo solo trovare tre brani nella media. Ricordiamo l’ironica ballad rockabilly “We better talk this over”, pezzo che ben troverebbe posto in “Blood on the tracks”, sull’illusione amorosa che non deve comunque pregiudicare il futuro né tantomeno creare “punti di non ritorno”, inutili e ridicoli. L’album si chiude con “Where are you tonight (journey through dark heat)”, pezzo un po’ alla Janis Joplin come ritmo e come atmosfera, che certamente non guasta in un album dal contenuto complessivo decisamente leggero.

“Street Legal” è un album nella media, che nulla toglie e nulla aggiunge alla produzione artistica di Dylan. Certamente c’è di meglio; ma ad uno come Bob anche questo può essere perdonato.

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