CCCP – FEDELI ALLA LINEA, 1964-1985. Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi. Del conseguimento della maggiore età (Attack Punk, 1986)

Dopo aver concluso il discorso di Ortodossia con l’uscita di “Compagni, cittadini, fratelli, partigiani” Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni, sempre accompagnati dal teatro sadomaso/militante/surreale di Danilo Fatur (Artista del popolo) e Annarella Giudici (Benemerita Soubrette), si buttano a capofitto nel nuovo lavoro. Che meriterebbe di passare alla storia già solo per il titolo, assolutamente geniale e irriverente. Ma visto che sto per parlare di uno dei massimi capolavori del rock europeo, preferisco procedere con calma.

I riferimenti musicali della band sono sempre gli stessi: reminiscenze mitteleuropee (con uno sguardo attento alla scena tedesca di Kraftwerk e Einsturzende Neubauten), furore punk, testi che rimandano al cantautorato italiano (soprattutto Battiato) e echi della scena dark britannica. La rabbia e l’immediatezza dell’album precedente sfumano in un’atmosfera più decadente, cupa, sempre permeata da un’ironia di fondo dissacrante e spiazzante, che la voce profonda di Ferretti rende con sorprendente forza.

Se “CCCP”, il brano di apertura, non è altro che un manifesto programmatico, già dalla seguente “Curami” si entra in un’atmosfera onirica e impalpabile. La canzone, resa epica da un uso straniante dello xilofono, si regge su un testo ossessionante e delicatamente squarciante. La batteria elettronica non fa che acuire il senso di straniamento dell’ascoltatore, sospeso in un limbo indefinito, in una “terra di mezzo” indefinita, dove si mescolano mestizia e furore. Non a caso vengono riprese dall’album precedente tre canzoni altamente evocative come “Mi ami?”, “Morire” e “Emilia Paranoica” che simboleggiano i tre stati d’animo della band: l’ironia, la delicatezza, il divertissement in “Mi ami?”, l’invettiva sloganistica e politica in “Morire” e lo spietato e preoccupato quadro generazionale in “Emilia Paranoica”.

Il delicato arpeggio acustico che apre “Trafitto” è subito sopraffatto dagli squarcianti riff di Zamboni e procede come una stralunata marcetta attraversata dalla voce di Ferretti che prima urla slogan (“Nel bel mezzo del progresso di diversi colori tra i quali il nero, il verde, il moderno, Tifiamo rivolta!”) poi quando il ritmo si fa più sincopato lancia il suo proclama di apatia (“Trafitto sono, trapassato dal futuro, cerco una persona. Fragili desideri, a volte indispensabili, a volte no”).

Sulla stessa lunghezza d’onda l’angosciante “Noia”, dove i rimandi dark si fanno più definiti. Un gioiello la bipartizione emozionale di “Valium Tavor Serenase”, rapidissimo brano punk che alle uncinanti parti iniziale e finale (mai il punk dei CCCP è stato così urticante e distorto) somma un intermezzo folk assolutamente geniale (“Quando ci penso vorrei tornare alla mia bella al casolare…”).

E infine le vere e proprie hit di quest’album, che rilanceranno alto il nome della band, improvvisamente destinato a passare dal semi-anonimato alle principali ribalte italiane ed europee (i concerti a Pankow e a Mosca): il minimal-tango “Allarme”, trainato dal basso e dalle tastiere destinati a perdersi in un ritornello claustrofobico e rumorista e nell’urlo finale “muore tutto, l’unica cosa che vive sei tu!”, e il punk ballabile di “Io sto bene” destinato a passare alla storia per il celebre ritornello che recita “non studio, non lavoro, non guardo la tv, non vado al cinema, non faccio sport”, lucida e devastante istantanea di una generazione resa apatica dalla sfrenata corsa al consumismo e incapace di definire la propria posizione (“Io sto bene, io sto male io non so come stare, io sto bene io sto male io non so cosa fare”).

Uno dei più grandi album della storia della musica italiana, seminale, acuto, profondo e imperdibile.

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