BRUCE SPRINGSTEEN, Nebraska (Columbia, 1982)

Nel 1982 Bruce Springsteen aveva già lasciato un segno nella storia del rock. “Born To Run” era il suo capolavoro, accompagnato anche dal successo commerciale.

Il nuovo lavoro del Boss, però, si stacca decisamente dal suono potente e ricco dei dischi precedenti. Niente E-Street Band, niente sax, niente chitarre portentose. Solo lui, una chitarra acustica e un’armonica a bocca, seguendo l’esmpio del cantautorato americano più amato (Bob Dylan, Woodie Guthrie, Hank Williams).

Una prova vera e propria per Springsteen, dimostrazione che il suo talento non aveva necessariamente bisogno della E-Street Band.
Ma se è vero che l’anima più rock viene messa da parte per il folk, è anche vero che la poesia rimane uno dei punti in comune con il passato. Ogni brano di “Nebraska” non rinuncia alla caratteristica più bella che le canzoni del Boss possiedono: l’autenticità. Storie comuni, vere, vissute e sofferte, registrate a casa con un misero quattro piste.

Il brano d’apertura, “Nebraska”, parla di un uomo che sta andando sulla sedia elettrica per omicidio, il tutto raccontato in prima persona. Bastano le poche note dell’introduzione per rendersi conto della profondità sonora di quest’album. Dopo questo brano dall’atmosfera nichilista (“Penso ci sia solo malvagità al mondo” conclude il verso finale), arriva la speranza. “Atlantic City” è una luce sempre accesa, che guarda con ottimismo il futuro (“Penso che tutto muore, tesoro, questo è un fatto/ Ma forse tutto ciò che muore un giorno tornerà indietro”).

“Johnny 99” tratta invece di una storia ai margini della società, dove un uomo ubriaco per aver perso il posto di lavoro uccide con un colpo di pistola una guardia. Nel processo egli si difenderà dicendo “Ora non sto dicendo che questo faccia di me un innocente/ Ma è stato proprio questo a mettermi la pistola in mano”. La disoccupazione e la posizione sociale, quindi, sono tanto colpevoli quanto quell’uomo. Un dramma che molte volte ci viene (tristemente) ricordato anche nella realtà quotidiana.

Finalmente, dopo tanta tristezza, arriva un momento di serenità: “Highway Pastrolman”, che racconta di un poliziotto e del suo rapporto col fratello delinquente. Una storia di fratellanza che va’ aldilà del ruolo che ognuno ha nella vita. Fantastico.

Così come la speranza di “Used Cars”, e di un uomo che spera di vincere alla lotteria per potersi permettere, insieme alla famiglia, un’auto nuova. Ma con “My Father’s House” si ritorna nella tristezza. La canzona parla di un uomo in cattivi rapporti con suo padre, e della sua decisione di andarlo a trovare nela sua vecchia casa per risanare il rapporto. Purtroppo, non lo troverà più lì.

Conclude l’album “Reason To Believe”, una specie di domanda che Springsteen si domanda dopo aver elencato alcuni fatti tragici: come mai la gente, nonostante quello che succede, continua a credere? Una domanda che tutti ci siamo fatti dall’inizio dei tempi (vedi il libro di Giobbe).

In un album perfetto musicalmente, un libro di poesie vere, che tutti dovremmo leggere per comprendere meglio quello che ci succede intorno.
Capolavoro assoluto.

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