ELECTRIC SOFT PARADE, Holes In the Wall (DB Records, 2002)

Ennesima nuova proposta dalla Perfida Albione, sempre alla spasmodica ricerca della Big Thing che possa rimpiazzare vecchie glorie come Beatles e Stones, glorie meno gloriose ma invecchiate precocemente come gli Oasis, gruppi esaltati al loro primo album e già in odore di scioglimento (un nome tra tutti, Coldplay).

Il nucleo degli Electric Soft Parade è formato dai fratelli White, Tom e Alex, ambedue teenagers, il primo senza neanche ancora il diritto di voto…Cresciuti in un ambiente familiare impregnato di musica, dalla classica ai quattro Baronetti, i due sviluppano una passione fortissima anche per contemporanei come Super Furry Animals, Suede, Geneva, Ash. Già in piena adolescenza portano con disinvoltura i brufoli su palchi di provincia, vincendo presto l’ansia da palcoscenico ed affinando un loro stile precocemente maturo. In omaggio ai Doors decidono di adottare The Soft Parade come marchio definitivo per il loro gruppo, ma un cover group americano (del gruppo di Jim Morrison, naturalmente) se ne accorge, facendo addirittura causa ai due pargoli. I cattivoni ameriKani sono accontentati dall’aggiunta dell’aggettivo “electric” e potranno continuare a suonare felici ed orgogliosi “The end” ad un paio di dozzine di cowboys ubriachi del Wyoming, mentre gli ESP fanno le cose ben più sul serio, facendosi notare col primo singolo “Silent to the dark”, una bella rock ballad che si dilata imprevedibilmente in un finale sospeso ed ambient vicino a certe delicatezze made in Harcourt.

Presto arriva il contratto con la piccola label DB, distribuita comunque dal gigante BMG: “Holes in the wall” si rivela senza dubbio un interessante debutto, magari non originalissimo, in ogni caso ricco di bei spunti melodici ed incisivi momenti rock.

La triade iniziale è a dir il vero folgorante: “Start again” è intensa e cosmica come potevano essere i Radiohead di “The Bends”, mentre “Empty at the end” è semplicemente eccezionale, un pop rock felice ed arioso come potrebbero scriverlo solo i Supergrass. Il terzo lato del triangolo è “There’s a silence”, un felicissimo ibrido tra Blur era “Great Escape” e furore primi Ash. E’ a questo punto che l’album ha una prima flessione, con due ballads troppo manierate (“Something’s got to give e “It’s wasting me away”). La citata “Silent to the dark” risolleva la curva qualitativa, la quale verrà superata solo dalla bellissima ed emozionante title track, una canzone incredibilmente matura sia dal lato compositivo che da quello dell’arrangiamento: malinconica e misteriosa, “Holes in the wall” suona come un duetto tra Thom Yorke e Guy Garvey degli Elbow e fa sperare in prossime meraviglie del duo White. Per il momento godiamoci gli alti ed i non troppi bassi della loro prima creatura, un disco assai piacevole e che flirta continuamente con la melodia, a volte ricambiato.

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