STARSAILOR, Love Is Here (Chrysalis Records, 2001)

Da qualche tempo a questa parte c’era grande attesa per il debutto degli Starsailor, preceduto da alcuni singoli di buona fattura. Originari del North West (Chorley), essi prendono il nome da uno straordinario disco di Tim Buckley, il quale è in effetti uno tra gli artisti ai quali più si ispira il cantante James Walsh, la vera Star della band, mentre gli altri (James Stelfox, Ben Byrne e Barry Westhead, rispettivamente al basso, batteria e chitarra) appaiono come semplici Sailors… Walsh ha una voce molto personale, stentorea, un po’ old fashioned anni ’70, a metà strada tra l’irruenza di Paul Rodgers dei Free, la dolcezza di Neil Young ed il virtuoso vibrato di Sal Valentino dei Beau Brummels, vecchi rivali dei più famosi Byrds.
“Love Is Here” mette voglia di essere ascoltato a cominciare dalla sua bella cover, questo binario lanciato verso l’orizzonte come in certe vedute della Patagonia (o anche di Jolanda di Savoia, Ferrara’s countryside). La opening track è molto suggestiva, con arpeggio chitarristico introduttivo ritmato da una sorda grancassa, aspettando l’entrata in scena della veemente voce di Walsh, calda e vagamente melodrammatica. I successivi tre pezzi mantengono l’album ad ottimi livelli, un piano/pianola acquista sempre maggiore spazio negli arrangiamenti, portando il sound in un territorio vagamente ispanico-southern rock. Le linee melodiche sono decisamente classiche, sostanziose, fin troppo mature e scafate, tanto che nella parte centrale di “Love Is Here” (da “Way To Fall” alla title track) i quattro sembrano attaccarsi più al mestiere che alla freschezza dei loro vent’anni. Le canzoni sono più stiracchiate ed una certa autoindulgenza salta più all’orecchio. A metà di “Talk Her Down” sono colto da una specie di sindrome sanremese, vedo De Crescenzo cantare ancora “Ancora” con ai cori Christopher Cross e penso che vorrei ascoltare “Anarchy In the UK” dei Sex Pistols.

Saluto con un’ovazione l’incipit psycho-rock di “Good Souls”, finalmente un cambio di ritmo legato ad un ritornello da ricordare, con la benedizione degli House Of Love di Guy Chadwick. “Coming Down” è un buon pezzo di chiusura, ed un curioso coro muto da steppa del vecchio Don tira fuori qualche emozione. Peccato che lo stesso coro sia messo in evidenza come traccia nascosta, al minuto 13 e 46, isolato dal contesto e francamente tedioso. Una stupida e forzosa risata tronca il coro “russo” ed anche la generale seriosità dell’opera, aumentando il seguente dubbio: ma questi ci sono o ci fanno?

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