LED ZEPPELIN, Physical Graffiti (2CD, Swan Song, 1975)

Dopo due anni buoni di silenzio discografico, gli Zep hanno intenzione di imbandire un’abbuffata per i fans in trepidazione, e in parte cercano il riscatto dopo che il precedente “Houses of the Holy” è stato snobbato dalla critica. Come è loro congeniale, optano per la grande quantità, per l’abbondanza: “Physical Graffiti” è un doppio vinile che infarciranno di tutto, dai brani d’atmosfera alla “No Quarter” ai vecchi blues, dalle atmosfere celtiche del terzo album a rocce di rock tirato da par loro.

In effetti di brani nuovi ce ne sono, ma per colmare il piatto Page e soci attingono alle registrazioni degli album precedenti, ripescando ben sette brani scartati: ad esempio la pigra “Down by the Seaside” proviene dalle sessioni di “III” (di cui effettivamente non sarebbe stata all’altezza) così come lo svagato arpeggio dedicato a “Bron-Yr-Aur”; la smorfiosa “Houses of the Holy” doveva essere la title-track dell’album del 1973; “Night Flight”, un solare rock’n’roll, proviene addirittura da “IV”, di cui evidentemente non condivideva l’atmosfera cupa.

Sono comunque le nuove cose a meritare l’attenzione maggiore: gli Zep hanno speso molto tempo ed energie a confezionare lunghi brani d’atmosfera che recuperino l’intensità di “Stairway to Heaven”, o almeno di “Rain Song”. Il più riuscito è indubbiamente “Kashmir”, uscito da una delle malefiche accordature che Page infligge alla sua Danelectro: su un riff semplice ma sottilmente misterioso la band costruisce una maestosa armatura di suggestioni orientaleggianti, che si sviluppa verso l’alto al ritmo pesante e inesorabile della batteria di Bonzo, più secca che mai; l’effetto è completato dalla narrazione di luoghi fantastici e antiche civiltà, dove ormai Plant è di casa, anche se il brano risulta forse troppo lungo, con i suoi otto e passa minuti. Altri brani lunghi e ambiziosi sono “Ten Years Gone” e “In the Light”, che pur contenendo buoni spunti soffrono ancor di più di prolissità, e di scarsa coesione fra la miriade di frammenti di cui sono composti.

Tali brani hanno comunque uno strano effetto positivo: dopo le lunghe ore passate in studio a cercare di mettere assieme simili monoliti, la band ha voglia di staccare e improvvisare cose immediate, sull’onda dell’adrenalina. Come ricordato da Page in un’intervista, in questo modo saltano fuori “Custard Pie”, con un organo che ricorda lo Stevie Wonder più movimentato, e soprattutto “Trampled Underfoot”, pesantissimo quasi-funky in cui Jones picchia sulla tastiera, Bonzo sul rullante e Plant esemplifica con didattica chiarezza le analogie fra la meccanica dell’automobile e l’atto sessuale. Anche “The Wanton Song”, dove si può ascoltare una bizzarra chitarra che suona come un organo grazie ad un effetto di eco rovesciato, e “Sick Again”, dove Page la fa da padrone, sono brani hard diretti e energici che restituiscono degli Zeppelin duri e puri, senza le svenevolezze e i vezzi alla “torniamo a Chuck Berry” di “Houses of the Holy”.

Una nota a parte merita “In My Time of Dying”, uno standard di cui esisteva già una versione di Bob Dylan (per inciso: quando Peter Grant si presentò a Dylan dicendo “sono il manager dei Led Zeppelin” si sentì rispondere “io i miei problemi non li vado a dire in giro”…). Dopo la parentesi di “Houses…” gli Zep scelgono questo brano per far ritorno al blues tradizionale, ma siamo lontani dalle interpretazioni dei primi due album: qui gli Zep diventano chirurghi sadici, che vivisezionano la musica che li ha cullati per metterne a nudo i meccanismi e le formule; è così che per undici minuti Page masturba una slide guitar ultradistorta sotto i bombardamenti di Bonzo, mentre Plant ripete le due frasi del testo fra urletti e singhiozzi. Potente, e perfino insopportabile se non si è dell’umore giusto.

In complesso, è nella varietà del menù il buono di “Physical Graffiti”, che testimonia la volontà degli Zeppelin di combattere su tutti i fronti aperti nell’irresistibile ascesa verso il successo dei primi, leggendari quattro album. Non li ritroveremo più così, perché la fortuna, ahinoi, cambierà ben presto a sfavore del Dirigibile.

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