STONE TEMPLE PILOTS, Shangri-La Dee Da (WEA/Atlantic, 2001)

Qualcuno si ricorda degli Stone Temple Pilots? Quel gruppo di San Diego tanto bistrattato negli anni ’90 per il fatto di essere troppo simile a band più famose e forse più ispirate come Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden? Bene, a distanza di quasi due lustri dall’esplosione del “Seattle Sound” e dopo due anni dal loro fortunato “No. 4”, la band di Weiland e DeLeo tornano con un album che vuole lasciarsi alle spalle l’esperienza grunge e prenotarsi un posto in prima fila nel nuovo millennio.

“Shangri-La Dee Da” è un buon disco, in cui trovano spazio canzoni pesanti e tirate, ma soprattutto ballate riflessive e melodiche.
L’album esordisce con “Dumb Love”, brano particolarmente robusto, sostenuto da un riff micidiale in stile Black Sabbath; uno dei migliori brani del disco, anche se qui la voce di Weiland si rivela piuttosto anonima. L’atmosfera pesante continua; in “Coma” l’energia dell’hard rock si sposa con scratch rubati all’hip hop (una pennellata di nuovo come va tanto di moda!). “Hollywood Bitch” è decisamente più rock and roll e divertente; purtroppo, anche qua la voce di Weiland viene mascherata da effetti e cori.

Ma scoprire l’anima “arrabbiata” degli Stone Temple Pilots non basta per capire questo disco. “Shangi-La Dee Da” è costellato di delicate ballate probabilmente improponibili un decennio fa per una band di questo tipo. Le atmosfere si fanno soft, a volte country e altre volte addirittura “inglesi”. “A Song For Sleeping”, coerentemente con il suo titolo, è una piacevole ballata dall’andamento “slow country”. Alcuni brani si distinguono per la loro capacità di fondere atmosfere tranquille e rilassate con recuperi potenti e grintosi, come “Bi-Polar Bear”, in cui la strofa sulla soglia del silenzio va a sfociare in un riff che si fa sentire, o come “Hello It’s Late”, uno dei brani più riusciti dell’album.
In questo disco si fa apprezzare DeLeo, versatile chitarrista in grado di passare con disinvoltura da situazioni hard rock a fini arpeggi acustici. Altrettanto convincente non sembra rivelarsi la voce di Scott Weiland; un timbro poco significativo, non particolarmente incisivo. I confronti-scontri con altri mostri sacri come Cobain o Vedder sono indubbiamente lontani.

Ciò che convince invece è la buona ispirazione del gruppo; il disco risulta infine piacevole e, anche se pressoché privo di spunti realmente originali, vale la pena di essere ascoltato, soprattutto da quegli orfani del grunge stanchi di comprarsi i dischi “live” dei Pearl Jam.

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