CAMEL, Moonmadness (Decca, 1976)

Nel medesimo anno di “A Trick of the Tail” dei Genesis i Camel escono con un disco che strutturalmente si ricollega a “Mirage” piuttosto che a “The Snow Goose”, ma che musicalmente fa tesoro di ambedue i predecessori. Un album blandamente tematico diviso in sette tracce, quattro delle quali dotate di brevi liriche. La personalità è sempre la stessa e inconfondibile. La forza dei Camel consiste nel non far pesare la mancanza di un vero cantante, nel costruire una musica fuori dal tempo, capace di raccontare senza parole, o con poche parole. Non è un capolavoro “Moonmadness”, ma un bel disco, dove l’ispirazione non scarseggia, senza cadute, compatto: alla pari con “Mirage”. “Aristillus” costituisce l’ouverture in forma di possente marcia progressiva, dove Bardens offre un suono originale, dalle venature metalliche, fortemente artificioso e molto elettronico, completato dalla voce di Ward in sottofondo, cupa, misteriosa, monocorde, ‘robotica’. La schiarita atmosferica giunge subito con “Song within a Song”, dominato nella prima parte, idillica, dal flauto di Latimer; poi il brano si fa più muscoloso, con assolo tastieristico di Bardens e finale impetuoso e solare. Le voci sono di Ferguson e Latimer. In “Chord Change”, interamente strumentale, è invece dominante la chitarra elettrica: nell’inizio mosso e sfuggente, nel delicato assolo che ricorda da vicino sonorità di “The Snow Goose”, e ancora nel finale. Un gioiellino è “Spirit of the Water”, un malinconico e riuscito trio pianoforte-voce-flauto, che presenta la sezione vocale secondo noi più riuscita dell’intero disco. Voce di Bardens. Nei toni i Camel scendono difficilmente al di sotto della malinconia o di una lirica tristezza; e infatti ecco che troviamo l’effettistica e bellicosa “Another Night”, il cui inizio ricalca uno schema di crescendo già presente nell’album precedente, salvo poi piegare verso un suono e un ritmo vigorosi, un po’ alla “Lady Fantasy”. L’enunciato vocale lascia poi il posto ad un sezione prevalentemente ritmica, dove chitarra e tastiera dialogano di fioretto: infine ritroviamo il tema principale e la ripresa vocale. Il finale però recupera un modulo ritmico-melodico dell’intermezzo, aggiungendo un breve assolo di chitarra. Flauto e piano aprono “Air Born”, la composizione più eterea e rilassata dell’album, forse anche quella più lirica e fantastica: caso eccezionale per i Camel, fa capolino per un breve attimo persino una chitarra acustica: belli anche i seguenti interventi di flauto e la ripresa vocale che prelude al finale di effetto corale (grazie alle tastiere). La voce è di Latimer come nel pezzo precedente. E’ curioso che, anche grazie ad effetti di microfono, la voce dei membri del gruppo sembri sempre la stessa. L’ultima traccia, la più lunga (all’incirca nove minuti), è costituita dalla strumentale e grandiosa “Lunar Sea”, aperta e conclusa da suoni siderali. La parte centrale è occupata da un lungo e sereno assolo di tastiera che ignora il virtuosismo puro, in favore di toni festosi. La parte finale è invece assai impetuosa e dominata dalle evoluzioni pirotecniche della chitarra.

Se ci chiedeste quale sia, secondo noi, il meglio di “Moonmadness”, sinceramente non sapremmo cosa rispondervi. Si tratta di un’opera di grande uniformità e compattezza dove, come è difficile individuare delle depressioni, così è altrettanto arduo definire degli autentici picchi. Come già abbiamo avuto occasione di ricordare, la musica del gruppo britannico è scorrevole come l’acqua. Un’acqua di qualità e dai benefici effetti, comunque. Se, invece, ci domandaste come e dove si presentino, in questo disco, i presunti stilemi jazzistici di cui ci è capitato di leggere, beh, vi risponderemmo che, per quanto ci riguarda, non li rileviamo da nessuna parte. Decisamente fantasy, rispetto alle precedenti, la copertina, mentre il logo del gruppo non ricorda più quello delle omonime sigarette.

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