BRAINBLOODVOLUME No. 15

“Wanna grow up to be a debaser.”

(Charles Thompson aka Black Francis)

ALL THEM WITCHES, “ATW” (New West Records, 2018)

L’ultimo album degli All Them Witches piacerà a quelli che si possono definire come “psiconauti” nel senso più classico, corpulenti capitani di vascelli interstellari e che guidano coraggiosamente a testa alta attraverso scariche cosmiche di tempeste magnetiche e affrontano buchi neri e fanno a zig-zag nel mezzo di fasce di asteroidi. Cuori solitari e vecchi lupi di mare tirati fuori con la forza dai romanzi di Joseph Conrad, ma poi adattatisi alla perfezione al comando di futuristiche astronavi a propulsione atomica. A parte questo la band di Nashville, Tennessee, composta da Robby Staebler, Charles Michael Parks Jr., Ben McLeod e Jonathan Draper (appena subentrato alle tastiere al posto di Allan Van Cleeve) mostra quei caratteri hard rock tipicamente anni settanta che vanno da espressioni nello stile di Jimi Hendrix a prolungate sessioni rock psichedeliche, profondità del suono delle tastiere tipicamente anni settanta e vigorose sessioni della sezione ritmica, che poi si sono scarnificate negli anni in allucinazioni King Buzzo.

“ATW”, uscito alla fine di settembre su New West Records, è un doppio robusto LP di rock psichedelico che sicuramente non definirei eccentrivo e violento, espressivo ai limiti dell’art-pop schizofrenia come il suono dei Melvins, ma che comunque è manifestamente un invito agli ascoltatori a vendere cara la pelle. Lo definirei continuo, come una specie di rimando a quella componente compulsiva e martellante del sound che fa devozione a Lemmy, e che si esprime in stacchi imperiosi di chitarrismi pirotecnici e deflagrazioni acide rock and roll blues pesanti e a volte volutamente prolungate oltremodo (“Fishbelly 86 Onions”, soprattutto gli undici minuti di “Harvest Feast”…) secondo rituali consolidati nel genere. Forse non è particolarmente originale, lo si potrebbe definire una specie di “classico”, ma è veramente ben suonato: funziona tutto, anche la voce di Charles Michael Parks Jr. è tagliata su misura per il genere. Francamente lasciarselo perdere mi sembrerebbe una vera e propria puttanata. Più lo ascolto, più mi piace.


REBEL DRONES, “Abusing The System” (Cardinal Fuzz, Little Cloud Records, 2018)

Pubblicazione imperdibile per tutti gli appassionati al giro The Brian Jonestown Massacre e The Dandy Warhols e in particolare a quelli che si sentono orfani di Matthew Hollywood e adesso anche del bassista Collin Hegna, uscito dal gruppo con Rob Campanella e Dan Allaire, dopo la ennesima rivoluzione nella line-up attuata da Anton Newcombe che ha voluto dare una rinnovata al look del gruppo che adesso ha una matrice decisamente più “europea”. Una decisione per la verità accolta con un certo dispiacere da parte dei fan di lunga data. Sostanzialmente devo dire che ho una grande considerazione di tutti i musicisti appena nominati e in particolare Allaire, Campanella ed Hegna avevano costituito per anni il cuore pulsante della sezione ritmica dei BJM. D’altro canto i Brian Jonestown Massacre sono fondamentalmente sempre più una creatura solo di Anton: da anni vive a Berlino e oramai scrive e registra i suoi dischi completamente da solo (nel caso di “Something Else” pare vi abbia contribuito in minima parte solo Hakon Adalsteinsson, nuovo chitarrista del gruppo e già frontman – tra i tanti progetti – dei Third Sound). Se la scelta è stata causa di dispiacere tra i fan, del resto è anche spiegabile in questo senso.

Parliamo comunque di musicisti che sono e sono stati in ogni caso sempre sul pezzo: Matt Hollywood in particolare ha sempre continuato a scrivere canzoni (è stato di recente in tour in Europa con il suo nuovo progetto e del quale fa parte anche Bobby Hecksher dei Warlocks) e in questa serie di produzioni e di conseguenti pubblicazioni discografiche, va inserita anche l’esperienza con i Rebel Drones e l’album “Abusyng The System”, uscito ne, 2006 e adesso riproposto in doppio vinile (e con l’aggiunto delle track “Conquered My Reason” e “Come A Day”) su Cardinal Fuzz e Little Cloud Records.

I Rebel Drones si possono definire come un vero e proprio supergruppo di musicisti della città di Portland: la formazione comprendeva Matt Hollywood alla chitarra e voce; Peter Holstrom dei Dandy Warhols alla chitarra; Collin Hegna (BJM, Federale) al basso e alle tastiere; William Slater (Grails) alla chitarra e al piano e Jason Anchondo dei Warlocks alla batteria. Lo stesso Collin Hegna si occupò delle registrazioni e del missaggio, il mastering invece fu opera di Josiah Webb, oggi frontman dei Magic Shoppe.

Parliamo quindi chiaramente di un piccolo gioiello e un pezzo imperdibile per gli appassionati. “Abusing The System” riprende la formula compositiva di ballad pop-rock psichedeliche anni sessanta-settanta tipica di Matt Hollywood con il sound elettrificato accattivante dei Dandy Warhols. La sapiente abilità del resto dei musicisti contribuisce a dare a pezzi sostanzialmente pop, forse anche ripetitivi, il dovuto groove e la carica blues e acida che poi sono gli elementi che fanno la differenza e rendono canzoni forse ordinarie pezzi interessanti e mai noiosi nonostante anche una certa lungaggine. Probabilmente non è un capolavoro, ma che sia un pezzo unico questo è sicuro. Da cogliere al volo.


TRADEN, “Traden” (Subliminal Sounds, 2018)

La storia della musica rock psichedelica nel vecchio continente in verità affonda le sue radici principalmente nel Nord Europa. Alcune operazioni di “recupero” della storia di questo immenso patrimonio negli ultimi anni hanno finalmente riconsegnato alla scena musicale del rock psichedelico svedese il giusto ruolo nella storia e aperto la via a una nuova ondata proveniente dal paese che oggi domina in maniera massiva su tutto il continente. Adesso è chiaro che la esperienza fondamentale sia quella di Parson Sound, International Harvester, Trad, Gras & Stenar e la cui ultima incarnazione oggi ha il nome di Traden (“The Trees”, ovvero gli alberi) e una formazione che chiaramente si è rimodulata ancora una volta rispetto alle origini e oggi è composta da Hanna Ostergren (Colline), Sigge Krantz (Archimede Badkar), Reine Fiske (Dungen, The Amazing) e il deus ex machina iniziatore storico del progetto, Jakob SjOholm. In aggiunta la guest Nisse Törnquist (Amason) che presta la sua voce in tre delle canzoni dell’album ultimo, eponimo, uscito lo scorso agosto in doppio vinile su Subliminal Sounds e praticamente ignorato dalla maggior parte della stampa e le webzine dedicate.

Una disattenzione generale ingiustificata a fronte della grandezza e della importanza dello storico gruppo (seppure rimodulato con l’innesto di sangue fresco, ma con collaboratori di eccellenza) e della bellezza incantevole delle canzoni dell’album, che si allineano agli standard del rock psichedelico più cosmico e sperimentale e se ne fregano delle forme di estetica dominanti, così come – piaccia oppure no – trascendono da derivazioni che possono oggi venire da esperienze come la new wave e una certa “oscurità” e pratiche di occultismo. Lo sciamanesimo di Traden è quello della stessa tradizione storica cominciata con Parson Sound alla fine degli anni sessanta, quello stesso senso di “cosmo” che deriva dalla interazione dell’uomo con le forze della natura: cavalcate cosmiche come “Nar Lingonen Mognar”, “Kung Karlsson”, “Det Finns Blatt”, lunghe meditazioni estatiche (“Tamburan”, ballads misteriose come “A Nej”, la bellissima “Hoppas Du Forstar”, l’allegorica “Hymn” e gli sperimentalismi di “OTO”.

Ma la verità è che tante parole sono sprecate per raccontare questo disco, che va direttamente vissuto e che per le premesse, si può solo prendere e amare con tutto se stessi, riscoprendo la propria natura di uomini liberi e il vero senso autentico della cultura psichedelica nata negli anni sessanta. Il fatto che il progetto si sia rinnovato con nuovi componenti più giovani, possiamo solo interpretrarlo per quello che è: il segnale che una certa lezione storica, una rivoluzione culturale e musicale, continuano ancora oggi ad avere senso e questo trasmette certezze e serenità più che speranze.


MOUNTAIN MOVERS, “Pink Skies” (Trouble In Mind Records, 2018)

Un anno dopo, i Mountain Movers di New Haven, Connecticut, tornano a pubblicare su Trouble In Mind con il settimo LP in studio intitolato “Pink Skies” e che si presenta con una copertina particolarmente vintage tanto per il soggetto, una foresta oppure una composizione di funghi allucinogeni colorati, che per lo stile e che rimanda alla serie a fumetti “Barbapapa” di Annette Tison e Talus Taylor pubblicata in Francia negli anni settanta e poi ripresa con successo anche nel nostro paese. Ne fecero pure una serie animata, realizzata in Giappone, e in Italia proposta con una colonna sonora tradotta in italiano da Roberto Vecchioni. Un immagionario visionario e sicuramente tipicamente psichedelico, ma che non ha un riscontro immediato sul piano dei toni per quelli che sono i contenuti del disco. “Pink Skies” è in effetti un disco che non riprende tanto forme di pop-rock psichedelico visionarie e devote alla cultura hippie, ma più un disco elettrico e ricco di distorsioni e acidità elettrica.

La label li presenta come affini a gruppi come White Heaven e Les Rallizes Denudes. Va detto che rispetto a questi due gruppi, i Mountain Movers sono sicuramente meno “art” e forse più diretti in un suono che pure se mantiene una stessa tensione elettrica per tutta la durata dell’album, non è ripetitivo e anzi sempre coinvolgente. Una formazione di musicisti di tutto rispetto, tra cui spicca la chitarrista Kryssi Battilene (titolare del progetto Headroom), così come il bassista Rick Omonte (completano il roster Dan Greene, voce e chitarra, il batterista Ross Menze), i Mountain Movers aprono con una track (“Freeway”) che praticamente combina forme derivative dal kraut-rock con oscillazioni e vibrazioni 13th Floor Elevators. Ma è solo la prima di lunghe sessioni come quella cosmica di “Bridge to This World” oppure la mastodontica “The Other Side Of Today” e seguita dalla sua appendice “This City”. Più convenzionali e con uno stile che mi ha ricordato forme di rock alternative tra gli anni ottanta e gli anni novanta (non so perché, ma mi è venuto da pensare ai Flipper, forse per una certa plasticità nel suono dei toni più bassi e quello tagliente delle chitarre elettriche) altre tracce come “Snow Drift” (vedi pure i Bardo Pond), “My Eyes Are Always Heavy” e la ballad conclusiva “Heavenly Forest”. Il risultato finale è un disco veramente molto bello e che supera quelle premesse derivate dalla copertina vintage e sfocia invece in dimensioni cosmiche e session elettriche kraut-rock sicuramente soddisfacenti.


PHOENICIAN DRIVE, “Phoenician Drive” (Exag’ Records, 2018)

Il loro precedente EP “Two Coins”, uscito nell’aprile del 2017, mi aveva favorevolmente colpito, tanto che pure comprensivo di sole due tracce, lo avevo annoverato tra le release brevi più belle dell’anno. Questo aprire il sound rock psichedelico all’intero bacino mediterraneo mi aveva rimandato immediatamente alle esperienze sperimentali di Brian Jones e Master Musicians of Joujouka e “Their Satanic Majesties Request”, così come lo sciamanesimo Dead Skeletons e l’apertura di Shaun “Nunutzi” Mulrooney aka TAU a esperienze dell’est Europa e complessi meravigliosi come Huun Huur Tu. Non si può non menzionare infine tutto l’incredibile lavoro portato avanti negli ultimi anni dalla Glitterbeat Records e che oltre che dedicarsi in maniera massiva al bacino del Mali, proprio a inizio 2018 ha portato i Dirtmusic in Turchia a collaborare con Murat Ertel (Baba Zula) e Umit Adakale e riprendere il lavoro di Erkin Koray. Insomma, c’erano e ci sono contenuti veramente molto interessanti nel lavoro di questo collettivo denominato Phoenician Drive e capitanato dal percussionista Diego Moscoso.

Il gruppo viene da Bruxelles in Belgio, pubblica per la Exag’ Records e questo primo LP riprende chiaramente i temi già elencati precedentemente e che avevano presentato con il primo EP e questi sono presenti in maniera massiva sin dalla prima traccia e permeano in maniera indelebile tutti i contenuti dell’album. Definirlo un disco sicuramente particolare nel contesto della scena neo-psichedelica contemporanea è forse poco per un disco veramente poco convenzionale e che trascende ogni schema, fino a sembrare una versione più grezza e meno virtuosa dei lavori di Sir Richard Bishop. Dei Sun City Girls, i Phoenician Drive hanno sicuro la stessa attitudine flessibile, i giri di chitarra e il groove del basso è vorticoso, i pezzi si costruiscono su arpeggi e riff di chitarra dal “sapore mediorientale”. Free-form psichedelia e progressive rock si incrociano in forme sinfoniche alternative che sono originali, veramente molto bello l’uso delle percussioni (vedi “Aguas del Olvido”), prova anche di buone qualità tecniche, ma tutto il materiale proposto si traduce in soluzioni non sempre convincenti e dove forse a un certo punto si chiede troppo a se stessi e gli ascoltatori proponendo una gamma di suoni che è forse troppo estesa e che a un certo punto si disimpegna anche in una specie di “boleros” e temi “spagnoleggianti”, fino a strane formule di tarantella.

Devo dire che “stroncare” (tra virgolette) questo disco mi costa caro, perché ci sono dentro un sacco di temi interessanti, però più lo ascolto più faccio fatica a trovarci una certa coerenza e convinzione che ne giustifichino la natura avanguardistica. Resta ciononostante una proposta curiosa, ma che secondo me sconfina i confini della musica rock e diventa “folklore”. Magari è divertente, ma non basta.


KURT VILE, “Bottle It In” (Matador, 2018)

Il problema dell’ultimo disco di Kurt Vile è in buona sostanza lo stesso della maggioranza delle sue prove come solista, cioè quello di mancare di qualsiasi mordente e/o ragioni che sollecitino in maniera particolare o quantomeno inedita, l’orecchio degli ascoltatori. Francamente non penso proprio che inserirlo in una rubrica di musica psichedelica sia una forzatura: sia lui che in fondo i suoi ex compagni di viaggio dei War On Drugs hanno una certa devozione a un rock psichedelico più “standard” tipico degli anni settanta e in buona sostanza – come tutto il resto delle loro produzioni – accattivante, attento a ricercare il gusto degli ascoltatori in una specie di incontro ideale tra le loro debolezze e idee riuscite appieno nel combinarne le aspettative e i gusti. Probabilmente il gruppo di Adam Granduciel a livello di crediti e riconoscimenti con l’ultimo “A Deeper Understanding” ha definitivamente staccato Kurt Vile. Il disco ha voluto andare a cuore nel panorama musicale americano e facendo centro anche nei cuori più lontani dalla dimensione tipicamente indie. Kurt dal canto suo appare insensibile a questo ridefinirsi dei War On Drugs e va avanti imperterrito sulla sua strada. Ma poi alla fine risulta pure essere noioso, mi domando fino a che punto potrà continuare a vivere di credito.

“Bottle It In” non è come detto un disco brutto, la maggioranza delle canzoni sono sicuramente ascoltabili e persino accattivanti, si va del resto in una direzione forzata in questo senso. Alcune soluzioni sono interessanti per un musicista che del resto ha sicuramente buone capacità pure sul piano tecnico, ma in fondo domina poi un senso di inutile che si fa crescente in ascolto dopo ascolto. Non mancano rimandi al suono proprio War On Drugs, che fanno capolino tra forme pop-rock psichedeliche a bassa intensità glam come echi di Lou Reed. Alla fine però non riesci neppure a definirlo questo disco, una cosa che qualche volta può pure essere un pregio. Ma qui la domanda invece è dove stiamo andando veramente a parare. La risposta non c’è, dentro un grande nulla.


THE REVOLUTIONARY ARMY OF THE INFANT JESUS, “Mirror” (Cruel Nature Records/Occultation Recordings, 2017)

Questo disco è stato riproposto su Cruel Nature Records e Occultation Recordings un anno e mezzo fa circa, nel maggio del 2017. Non è esattament euna nuova uscita e peraltro anche nel caso specifico si trattava di una ristampa con la inclusione di due bonus track (“Le Monde Du Silence” e “Dies Irae”) rispetto alla versione originale pubblicata nel 1991 e allora uscita per la Probe Plus. The Revolutionary Army of the Infant Jesus sono stati definiti come una delle avventure più enigmatiche nella storia della musica britannica degli anni novanta. Il collettivo, ispiratosi a esperienze cinematografiche come quelle di Andrei Tarkovsky e in maniera particolare al mondo visionario di Luis Bunuel (il nome stesso è una citazione da “Ese oscuro objeto del deseo”, rivedeva esperienze sacrali e iconografiche della chiesa orientale rivedute alla luce di una psichedelia folk nello stile di gruppi come Current 93 oppure Death In June e mescolati a uno sperimentalismo transumanista stile Amorphous Androgynous.

Ritornato in auge con un nuovo disco nel 2015 dopo praticamente quasi 15 anni dalla ultima pubblicazione (che poi sarebbe proprio la ristampa di “Mirror”), il gruppo di Liverpool ha proceduto alla ristampa dei primi due lavori e ha in programma un nuovo album, che era stato annunciato per quest’anno (ma al momento non ho novità in tal senso). La ristampa di “Mirror” mi è capitata tra gli ascolti per puro caso. Francamente dopo avere ascoltato il disco la prima volta, mi sono semplicemente domandato da dove questa musica uscisse fuori. Il sound di Revolutionary Army è assolutamente non convenzionale e staccato da forme definite di genere. La sacralità di cori e suoni e sfumature orientali permea l’intera struttura dell’album, che si traduce in ballads folk psichedeliche (“Joy Of The Cross”) e sperimentalismi astratti come “Nativity”, il drone di “Man Of Sorrows”, la sofisticata “Immaculado” e la liturgia corale di “Shadowlands”, “Nostalgia”, Psalm”. Tutto questo avviene in una dimensione acida Future Sound Of London suburbana e con uso particolarissimo di percussioni, che provengono da un contesto esterno e rendono tutto ancora più catartico e l’album messia di messaggi di tipo subliminale.

In definitiva è un disco senza tempo e la qui ristampa mi pare quasi un atto doveroso per riconsegnare a questa generazione, come amplificarne l’eco ai posteri, di un’opera che è senza tempo. Amanuense e elegiaca, sinergica tra spinta al futuro e un passato che affonda le radici in una antichità difficile e quasi spaventosa, dove dietro le vele di un oscurantismo religioso ferve una passione soffocata e che aspetta di essere esibita e mostrata alla luce.

Emiliano D’Aniello

24/10/2018