[Cannes chiama Kalporz] Diario 21 maggio 2019

In un festival capita di incappare nella giornata nera, quella in cui per un motivo o per l’altro non si riesce a evitare di trovarsi di fronte a un film mediocre, inanellandone una quantità preoccupante. Se si aggiunge il particolare clima di quest’anno, con nuvoloni color pece che impediscono ai raggi di sole di filtrare e una temperatura che non supera mai i diciotto gradi, ecco che il giorno della depressione assume contorni quasi cataclismatici, apocalittici.

Si inizia di prima mattina al Marriott, dove la Quinzaine des réalisateurs – finora in grado di regalare non poche gioie, come raccontato nei giorni scorsi – ha piazzato Une fille facile, il nuovo lungometraggio di Rebecca Zlotowski, non certo un cavallo di razza della regia. Qui le ambizioni non mancano, a partire dalla scelta di ambientare il film proprio a Cannes ma almeno da principio nei quartieri proletari, lontani dalla rutilante vita dei riccastri che gettano l’ancora dai loro yacht (ci sono anche loro nel film, ovviamente). Peccato che la superficialità la faccia da padrona, e che il film non riesca mai a scavare, sfiorando solo in maniera lieve gli argomenti che solleva. Per la stampa francese il film è però un piccolo caso, perché la coprotagonista è Zahia Dehar, che si fece un nome poco meno di dieci anni fa perché era l’escort minorenne con cui si intrattenevano due celebri calciatori della nazionale di calcio, Franck Ribéry e Karim Benzema. Un po’ poco per fare un film degno di questo nome. La giornata è proseguita con un mediometraggio… In realtà A Hidden Life, il nuovo film di Terrence Malick, durerebbe quasi tre ore, ma visto lo scarso feeling con l’ultima parte della carriera del regista statunitense – ben diverso  il discorso se si considerano i primi lungometraggi, da Badlands a La sottile linea rossa e The New World – e considerato che per quanto più lineare nella narrazione i temi portanti e il discorso sul lirismo rimangono inalterati, ho abbandonato ben presto la contesa augurandomi visioni più concilianti. Che non sono arrivate, purtroppo.

Infatti nel pomeriggio è stato presentato Le jeune Ahmed, ennesimo ritorno in concorso per i fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne, che qui a Cannes sono di casa e sono tra i pochissimi a poter vantare ben due palme d’oro (anche Ken Loach, a sua volta in concorso) vinte negli anni con Rosetta e L’enfant. Le jeune Ahmed vorrebbe concentrarsi sul tema dei giovani musulmani radicalizzati, ma lo fa in maniera così spudorata, costruita a tavolino – non è che si può sempre avere qualcosa di interessante da dire sul tema del momento – e del tutto disinteressata al suo protagonista e all’ambiente nel quale vive da diventare dogmatico, aprioristico, perfino razzista e islamofobo. Una caduta di stile ingiustificabile, per un film ricattatorio e squallido, probabilmente il punto più basso dell’intera competizione. Sì, perché perfino Frankie di Ira Sachs, presentato in serata, appare migliore per quanto si tratti di un’altra opera debolissima e priva di chance di vittoria, almeno sulla carta. Racconto di un’attrice di chiara fama – interpretata da Isabelle Huppert – che sa di dover soccombere al tumore di lì a pochi mesi e decide di convocare in vacanza forzata amici e parenti nella splendida cornice di Sintra, in Portogallo, Frankie vorrebbe essere la messa in scena corale delle relazioni umane e affettive e della loro volubile essenza. Il condizionale è d’obbligo, perché Woody Allen, Peter Bogdanovich e Noah Baumbach, evidenti riferimenti cinefili, sono proprio di un altro pianeta.

Domani dovrei riuscire a scrivere del film più atteso del festival, Once Upon a Time… in Hollywood. Dovrei, perché la schizofrenia della programmazione e il mio livello non eccelso di accredito – Cannes è l’impero del classismo – non mi dà sicurezze a riguardo. Incrociamo le dita.