[#tbt] Quando l’algoritmo ci fa (ri)scoprire i Soul Coughing

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Nell’epoca delle playlist del Buongiorno, dell’Aperitivo e di Sanremo, esistono anche algoritmi fidati, capaci ogni tanto di sorprenderti, di sostituirsi, ahimè, al consiglio del vecchio amico. Sarà che, in un certo senso, almeno mentalmente, non siamo mai usciti dall’isolamento della pandemia, sarà che gli anni e le settimane sfrecciano tra un’emergenza e l’altra, tra una chiamata e l’altra, ma la sensazione è che le proposte di fruizione delle piattaforme, con i loro cataloghi pantagruelici e, a volte, così ben raggruppati, abbiano preso troppo spesso il posto della vecchia chiacchierata tra amici. È così per i film, le serie, ma anche per la musica. Eppure, queste macchine che così bene ci conoscono, che così bene ci studiano, sono in grado di far riemergere fuori dal cilindro dei capolavori, se non sconosciuti, di certo dimenticati. Ed è così che chi vi scrive ha conosciuto i Soul Coughing e lo straordinario “Ruby Vroom”, il loro album d’esordio.

La vera scoperta, prima ancora del valore intrinseco della musica, qui altissimo, è la contemporaneità di un certo tipo di suono, dell’approccio. Anzi, partendo da più indietro, la stessa grafica della copertina attiva immediatamente certi collegamenti neurali che obbligano all’ascolto. Se poi ci si lascia andare alla consueta voglia di etichettare qualsiasi cosa, la domanda sorge spontanea: che genere fanno i Soul Coughing? Difficile a dirsi. Pare che il quartetto avesse coniato la definizione deep slacker jazz: un audace potpourri di campionamenti eccentrici, loop di batteria ossuti e spoken-word/rap/poesia da strada, anticipando da un certo punto di vista quello che avrebbe fatto un paio di anni più tardi Beck con “Odelay”. Ah, come non menzionarlo, “Ruby Vroom” è un album del 1994, ed è allo stesso tempo figlio del suo tempo ed incredibilmente attuale.

Il carattere jazzistico del suono è dato dai pattern ritmici della batteria, ma soprattutto dalle linee di basso anarchiche di Sebastian Steinberg (ad esempio in “Uh, Zoom, Zip”) e da tutto quello che le tastiere di Mark Degli Antoni inseriscono nello spazio sonoro delle quattordici tracce che compongono “Ruby Vroom” (“Bus To Beelzebub” su tutte). Detto così suona tutto terribilmente intellettuale, hipster se vogliamo, ma la realtà dell’ascolto è diversa. Brani come “Moon Samy”, “Supra Genius”, o ancora “Janine”, dove sono le chitarre a prendersi la scena, suonano accessibili, quasi cantabili, se quello del leader Mike Doughty (da rispolverare anche la carriera solista) fosse un semplice canto. Ma, come si diceva sopra, qua siamo più vicini alla poesia metropolitana, e l’asfalto bagnato, i marciapiedi sporchi ed i lampioni tremolanti di “True Dreams Of Wichita” e “Sugar Free” sono lì a ricordarlo. Insieme agli ultimi pezzi citati, il capolavoro dell’album è il funk di “Screenwriter Blues” che, tornando al principio, è anche il brano che, non si sa per quale fortuito legame di ascolti, l’algoritmo ha proposto per primo. Siamo di fronte alla canzone definitiva su Los Angeles, la canzone definitiva da ascoltare quando si guida in auto da soli la notte. La canzone definitiva sotto molti punti di vista.

Dopo “Ruby Vroom”, la band ha pubblicato altri due album in studio, “Irresistibile Bliss” ed “El Oso”, fino allo scioglimento nel 2000. Sono altre due piccole perle, dove la band esplora il concetto proposto al debutto in ogni sua sfaccettatura, ma si tratta anche di prodotti meno accessibili, indirizzati a chi ha deciso che nel suono dei Soul Coughin vuole definitivamente perdersi. Invece “Ruby Vroom” è lì alla portata di tutti, pronto per essere assaporato da chi ha ancora voglia di farsi sorprendere.

Photo credit: Clay Patrick McBride