MITSKI, “The Land Is Inhospitable and So Are We” (Dead Oceans, 2023)

Una minaccia, un triste presagio o una certezza ormai incontestabile: già il titolo del nuovo, variegato progetto di Mitski, The Land Is Inhospitable and So Are We, non è costruito per metterci a proprio agio nonostante la musica al suo interno sia probabilmente la più solare e diretta della sua intera carriera. È un disco con il quale la cantautrice compie un ulteriore passo avanti nel proprio percorso di creazione di un suono cosmico avvolgente e polifonico che mira a includere l’universo intero e i più profondi anfratti della propria anima. Risulta più equilibrato e strutturato al suo interno rispetto all’ottimo disco precedente e ancor più imprevedibile dell’eccezionale Be the Cowboy. Arriva a un anno e mezzo di distanza da Laurel Hell ed è l’evoluzione più coerente e naturale di Mitski se lo si guarda alla luce dei suoi lavori più recenti.

Coadiuvata dall’eccelsa mano di Drew Erickson, che ha curato gli archi, quell’Erickson che è stato in parte artefice del maestoso And in the Darkness, Hearts Aglow di Weyes Blood dell’anno scorso, Mitski abbandona molti dei tracciati più ostici e claustrofobici della sua musica per privilegiare sonorità maggiormente aperte e ritmi più regolari e schietti. Tra le righe si percepisce un’aria broadwayana del passato, a tratti popolata da un Frank Sinatra oramai spettro che si aggira tra le rovine di un mondo lontano e abbandonato, come accade nella potente e vivida “The Deal”, quando Mitski cerca a tutti i costi un contatto mentre canta «I want someone to take this soul / I can’t bear to keep it», a tratti filtrata attraverso le sfumature di uno strambo folk lisergico che è country e pop al tempo stesso, come testimonia la spettacolare “The Frost”, nella quale Mitski canta che il gelo «[…] looks / Like we’ve been left in the attic».

Le nebbie di un malessere indicibile che lotta con il desiderio vivo e forte di scuotersi e di cambiare si affacciano in più episodi e si intrecciano con alcuni temi forti che Mitski ha da sempre cantato, come le riflessioni sul concetto d’identità (di sé e dell’altro e del sé rispetto all’altro) e sull’amore. “My Love Mine All Mine”, che sembra anch’essa uscita dal Great American Songbook, nel suo intenso procedere, dialogando con la luna, riflette sul senso di precarietà dell’esistenza che inquieta la cantante ma al tempo stesso definisce l’àncora a cui occorre aggrapparsi. È nel confronto con l’Altro – cosa o persona che sia – che si arriva lentamente e faticosamente a costruire e ad apprezzare sé stessi: «So, when I die, which I must do / Could it shine down here with you?», domanda Mitski alla luna, per poi affermare con discreta convinzione «[…] my love is mine, all mine» e «Nothing in the world belongs to me / But my love, mine, all mine, all mine».

I modi in cui i temi principali dell’opera sono trattati e approfonditi sono disparati e complessi. In “Star”, per esempio, uno dei momenti più toccanti dell’album, è attraverso lo spazio che si racconta di un amore ormai perduto, e Mitski sembra riuscire a descrivere questa sensazione di vuoto proprio attraverso i traits d’union e le differenze che intercorrono tra due persone. In questo caso è una stella e non la luna ciò che rende il sentimento tangibile e degno di essere ricordato e cantato: la solitudine e l’agognata possibilità di una coniunctio non sono più in conflitto tra loro, e soltanto attraverso questa celebrazione dell’isolamento riesce a prendere corpo la necessità e la certezza che qualcosa, anche molto lontano, anche nella nicchia più remota e irraggiungibile della nostra galassia, si materializzi. La terra è inospitale e anche noi lo siamo, pare gridare Mitski, ma è nell’accettazione di ciò che nascono e crescono nuove possibilità e la volontà di ricercare ugualmente un piacere, un amore, un desiderio, un rifugio.

Un sentimento di abbandono e di melanconica incertezza popola certamente The Land e a tratti forse lo incornicia o addirittura pervade. Mitski, tuttavia, non ne è ossessionata come un tempo ne sarebbe stata e sa, anzi, che è funzionale e propedeutico a un qualsiasi tipo di cambiamento. Ciò non impedisce alla cantautrice di creare ancora mondi cupi e soffocanti; in essi, però, una salvezza e un’innocenza non sembrano più così improbabili. È ciò che inizialmente Mitski descrive come una debolezza che finisce per evolvere in una scaltra e sapiente dichiarazione di forza e forse anche di (potenziale) vendetta: «You believe me like a God», canta concludendo “I’m Your Man” con piglio sicuro e beffardo, «I betray you like a man».

Un aprosdóketon di questo tipo non giunge di certo isolato nel disco né tantomeno nella stessa canzone. «I’m sorry I’m the one you love», canta sempre in “I’m Your Man” Mitski, «I’ll meet judgment by the hounds». La speranza talvolta è mescolata e confusa con una pura e giustificata volontà da parte di Mitski di imporsi su un/a partner incostante, su un mondo maschilista, ingiusto e violento, su una serie di luoghi comuni fasulli che occorre abbattere e superare. Sono ben rappresentativi di ciò alcuni versi della conclusiva “I Love Me After You”, un elegante e tagliente synth pop che, con le sue percussioni e le sue chitarre distorte nella seconda parte del pezzo che creano un alienante muro del suono, incalza l’ascoltatore e lo cattura: «How I love me after you», afferma Mitski con forza, «King of all the land», mentre si avventura in una delle più originali e schiette dichiarazioni di indipendenza di sé e del proprio percorso artistico di tutta la sua discografia.

Visionaria, romantica e impregnata di una nostalgia fortissima per qualcosa o qualcuno che è inafferrabile e invisibile è la poetica di Mitski, e in The Land ciò non muta: questo perenne spleen, però, non si tramuta in qualcosa di patologico e di irreversibile né nella ricerca obbligata della solitudine o di un’alienazione utile al proprio processo creativo e a superare i propri traumi; a queste condizioni Mitski ora affianca la compagnia e il dialogo con qualcosa o qualcuno, e le canzoni sembrano essere il luogo in cui non si scappa da sé stessi e da ciò che di terribile e di ambiguo ci circonda ma il luogo della negoziazione in vista di una possibile salvezza, per quanto sia non certo immediata e forse un poco torbida. Più che di compromesso si dovrebbe parlare di ineluttabilità, ma una ineluttabilità che agli occhi della cantautrice è piacevole e construens.

«Did you go and make promises you can’t keep?», canta sognante Mitski come se stesse per prendere il volo dentro un vortice di vento nello spazio minimalista e un poco asfissiante di “Bug Like an Angel”, brano di apertura del disco e primo singolo che anticipava l’opera. Gioia e dolore sono trasparenti, mutevoli e difficili da bloccare e cantare, ma Mitski sa bene come scolpirli ed eternarli nelle proprie canzoni. The Land Is Inhospitable and So Are We non fa certo eccezione e, con più chiarezza e lucidità rispetto a Laurel Hell e con un’ispirazione musicale e poetica un po’ meno scoppiettante di quella che diede vita a Be the Cowboy, rappresenta un altro grande centro per Mitski, che in ogni lavoro ribadisce a sé e a noi quanto sia caduco e mutevole tutto ciò che diciamo, facciamo e cantiamo, ma anche quanto sia significativo continuare a dirlo, farlo e cantarlo.

80/100

(Samuele Conficoni)