In una recente intervista a Under The Radar, Meghan Remy spiega che il suo ultimo “Heavy Light” è un album suonato, corale: mentre precedentemente U.S. Girls utilizzava molto il cut-and-copy e anche nel bellissimo “In a Poem Unlimited” (2018) ha lavorato particolarmente per sovraincisioni, l’esigenza di questo lavoro registrato in soli otto giorni nasce dalle rinnovate sensazioni del tour precedente e dalla necessità di scattare una fotografia di questo stato di grazia collettivo. È come se la Remy giunga a un’approdo di esperienza, anche personale, che le permette di godere maggiormente delle sfumature di una band piuttosto che dell’artigianalità fantasiosa ma individuale a cui era abituata.
Ne fuoriesce per certi versi un album cantautorale-gospel (“Born To Lose”, che potrebbe essere una outtake al femminile di Nick Cave, “IOU” con quel pianoforte molto classico, “And Yet It Moves / Y Se Mueve”, sporcata da ritmi caraibici su una base seventies), una sorta di tribalismo pop (“Overtime”) con le inevitabili sfumature politiche. Se infatti “It’s not personal, it’s business”, canta Meghan in “4 American Dollars”, “No matter how much You get to have / You will still die”: chiaro, no?
Inframezzato da sketch di dialoghi con i propri musicisti, “Heavy Light” è un riflettore che si accende forte e ben direzionato nel percorso personalissimo di questa cantante dalla voce unica, magari con una qualità di scrittura dei pezzi leggermente inferiore al precedente lavoro ma con una coesione rara. Un album collegiale, alle volte intimo (“Denise, Don’t Wait”), alle volte arrembante (“The Quiver to the Bomb”, con un pianoforte usato a mo’ di “All My Friends” dei LCD Soundsystem).
Dite poco?
75/100
(Paolo Bardelli)
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