GIL SCOTT-HERON / MAKAYA MCCRAVEN, “We’re New Again – A Reimagining by Makaya McCraven” (XL Recordings, 2020)

Che cosa significa reimmaginare un disco? Nel caso specifico di “We’re New Again”, opera del batterista e producer chicagoano Makaya McCraven, potremmo parlare di una rivivificazione  di “I Am New Here”, ultimo disco di Gil Scott-Heron datato 2010, o ancora meglio di una riconduzione del disco nell’universo musicale e concettuale cui McCraven appartiene: la scena di Chicago, una delle più fertili nel mondo della musica contemporanea, sia a livello sperimentale che di collaborazioni, in cui la musica è al cuore di un processo di costruzione di comunità multiculturali sempre più consapevoli dell’importanza della condivisione. Reimmaginare è qualcosa di più complesso di un tributo, e che, in virtù di un lavoro di “traduzione” da un linguaggio musicale ad un altro, si differenzia da una raccolta di cover o da un remix. Guardando ad opere del passato, più che in “We Are New Here”, remix del 2011 dello stesso disco di Heron a cura di Jamie xx, un’affinità potremmo trovarla in quel “Kicking Against the Pricks” del 1986 in cui Nick Cave reimmaginò, e in alcuni casi trasformò in capolavori assoluti, una serie di classici della tradizione pop-rock americana.

Reinventare Gil Scott-Heron significa per McCraven instaurare innanzitutto un dialogo con il modello amato, per dar voce a quanto è rimasto inespresso nell’album più interiore e personale di Heron, realizzato e pubblicato negli anni difficili dell’andirivieni dal carcere e dell’aggravarsi delle condizioni di salute a causa dei problemi di dipendenza dalle droghe. Dopo una carriera dedicata alla lotta per la promozione dei diritti civili, delle libertà e dell’identità degli afroamericani, proprio nel momento più complicato al livello esistenziale, Heron decide di riconnettere le ferite collettive della comunità nera di appartenenza alle sue più intime e personali. Il risultato è un disco salvifico, in cui Heron, attraverso un blues notturno e minimale sporcato da sonorità e ritmi urbani e da uno spoken word profetico, fa esplodere la rabbia interiore e la profondità emotiva trattenute per decenni da un’intera generazione di popolazioni nere. Stiamo parlando di quelle stesse ferite che ha probabilmente ereditato anche McCraven, i cui genitori musicisti hanno condiviso con Heron l’aver vissuto lo stesso tempo di discriminazioni e di ingiustizie. Ma non sono solo le ferite interiori a legare Heron e McCraven: se il batterista di Chicago ha accettato la proposta di Russell e Peterson della XL di lavorare a una rivisitazione di “I Am New Here”, è per qualcosa di ben più profondo, che riguarda la concezione stessa della musica come atto salvifico ma per nulla consolatorio.

Ci sono vari motivi che rendono speciale questa reimmaginazione. Sotto il profilo formale, McCraven, cambiando l’ordine della track-list, dimostra quanto “I Am New Here” sia un disco concettuale così compatto e dal montaggio talmente ben strutturato, che può essere anche scomposto senza incorrere nel rischio di perdite di senso. Inseguendo il principio dell’andamento ritmico e anti-melodico delle tracce, McCraven riesce a enfatizzare i temi centrali dell’album, mettendone in evidenza il valore universale e a-temporale: l’insostenibilità materiale ma anche morale della vita nell’ambiente urbano (“Yeah you got eight million people / And I didn’t have a single friend / Don’t you know, don’t you know / New York was killing me”), la nostalgia verso le proprie radici rappresentate dalla casa e dalla famiglia, per quanto umili esse siano (“Yeah well I need to go home and take it slow in Jackson, Tennessee”, e ancora, nel brano dedicato alla madre Lily Scott: “And all around her, there was a natural sense / As though she sensed what the stars say, the birds say / What the wind and the clouds say / A sensual soul and self; that African sense”), il rifiuto della storia come destino (“See see, you don’t see why / Like you’a dog me ’round / Say, I don’t see why / People dawging me around / It must be that old evil spirit / That spirit drop me down in your ground”), quel desiderio impossibile di prendersi cura di qualcun altro quando non si è in grado di salvare neanche sé stessi (“I’ve loved and I lost the same as you / So you see I know just what you’ve been through / And if you let me, here’s what I’ll do / I’ll take care of you).

Spostando la riflessione sul piano musicale, è indubbio che Gil Scott-Heron rappresenti un punto di riferimento imprescindibile per tutta la musica nera contemporanea, in particolare per artisti come McCraven, Flying Lotus, Kendrick Lamar e molti altri, impegnati in un processo di ridefinizione, per non dire estinzione, dei confini di genere, a partire da una fusione del jazz con i generi musicali più familiari alla cultura nera, come l’hip-hop, il trip-hop e la dub-step, di cui Scott-Heron è indiscutibilmente un precursore. Ciò che fa McCraven in “We Are New Again” è una veicolazione dell’album di Heron all’interno di questo processo creativo di dissolvimento dei confini di genere: pur mantenendo la black-voice sciamanica di Heron al centro della tempesta sonora, tutto lo spazio lasciato vuoto e i silenzi vengono riempiti da McCraven attraverso campionature di suoni, nuovi arrangiamenti, sonorità acustiche e innesti di elettronica e musica digitale, improvvisazioni lampanti e dalla logica di base sempre ben definita, nonché dagli interventi musicali di quella che può essere ormai considerata l’orchestra di McCraven: Junius Paul (basso), Joel Ross (vibrafono), Jeff Parker (chitarra), Greg Spero (tastiere), Ben Lamar Gay (tromba), Brandee Younger (arpa). Il processo di riappropriazione di McCraven è talmente immersivo da arrivare fino all’inserimento nelle tracce di campionature di parti musicali realizzate dai suoi genitori: ci riferiamo in particolare a ”Lily Scott (Broken Home Part 3)”, che vede il padre e la madre suonare rispettivamente le percussioni e il flauto, e ancora a “Where Did The Night Go”, resa ancora più straniante rispetto all’originale dal suono incantatore di un flauto campionato da “Silhouette of Eric”, uno dei brani del quartetto jazz del padre Stephen McCraven.

Attraverso un intenso gioco di specchi, McCraven raggiunge l’apogeo di quella sintesi perfetta fra sonorità elettroniche e acustiche che è l’approdo ideale della sua musica. I momenti più interessanti del disco sono proprio quelli in cui il minimalismo sonoro di Heron viene impreziosito dalla visionarietà di McCraven: abbiamo così la tensione palpabile di “Running”, che, rispetto alla versione originale, subisce un’accelerazione ritmica e una stratificazione degli elementi percussivi in pieno stile trip-hop; e poi “New York is Killing Me”, in cui il semplice handclap originario viene espanso in un’irresistibile ballata tribale scandita dalle anafore di un pianoforte ammaliante e dallo scontro fra diversi flussi sonori solo in apparenza procedenti in direzioni diverse, mentre il blues sincopato di “The Patch – (Broken Home pt. 2)” viene ancora più sporcato dalle convulsioni elettrico-percussive di chitarre e batterie. “I’ll Take Care of You”, la perla dell’album, merita invece una menzione a parte: un caos calmo di pulsioni elettroniche, arpeggi, percussioni ipnotiche e un pianoforte che letteralmente “canta”, accompagnando come fosse un duetto la voce tormentata di Heron.

Con “We’re New Again” McCraven ci porta in dono l’opportunità di tornare ad ascoltare e a rivalutare un album che ha profondamente influenzato tutto ciò che è venuto dopo,  un disco che è una sorta di rito collettivo di comprensione del male nel mondo e, allo stesso tempo, un’oasi per chi vuole starsene da solo con i propri pensieri.

82/100

(Emmanuel Di Tommaso)