L’eterno ritorno dell’inuguale: i Deerhunter al TPO di Bologna

Deerhunter, TPO, Covo Club, 14 novembre 2019

L’arpeggio di chitarra elettrica che fa da intro a “He Would Have Laughed” comincia a diffondersi nell’aria del TPO, accompagnato da un verso etereo che Bradford Cox lancia in un loop abissale. L’atmosfera è sognante: il pubblico è divertito ed emozionato da un’ora e mezza di ballate di imprinting country puntualmente dilatate in sospensioni ipnotizzanti di stampo psichedelico o in fughe distorsive di ambient-punk innescate dai chitarrismi shoegaze di Lockett Pundt e di Colin Mee e dalle vocalizzazioni aliene di Cox. La finale “HWHL” subisce un’ulteriore stravolgimento: la melodia magico-tribale disegnata dal trio Moses Archuleta-Dan Walton-Josh McKay, rispettivamente alle tastiere, alla batteria e al basso, viene sovrastata dalle chitarre elettriche che prima la disperdono e poi la ingabbiano con i riverberi in una sorta di psych-jam session posseduta dagli spiriti di Atlas Sound e degli Animal Collective. Quando sembra che tutto stia per esplodere, i volumi si abbassano, torna quasi il silenzio, da cui riemergono l’arpeggio iniziale e la voce cibernetica di Cox che lentamente si spengono e lasciano nell’aria le domande corrispondenti al finale del testo: “Where do your friends go? / Where do they see you? / What did you want to be?”. È la degna chiusura di un concerto emozionante nonostante alcuni passaggi a vuoto in termini di compattezza sonora. Riprendiamo dall’inizio della serata.

Orville Peck, che abbiamo intervistato in occasione del suo primo concerto in Italia alla Maison Musique di Rivoli, apre le danze con una mezz’ora di ottima qualità musicale e presenza scenica di grande effetto: grazie a una voce profonda e a un country evocativo turbato (purtroppo non ancora abbastanza) da derive shoegaze, Peck riesce a divertire e animare il pubblico di un TPO che a tratti stasera ricorda veramente il Roadhouse di Twin Peaks.

L’inizio del concerto dei Deerhunter, che presentano dal vivo l’album “Why Hasn’t Everything Already Disappeared?” (4AD, 2019), è invece sottotono: l’esecuzione è un po’ distratta, non c’è coesione fra i membri della band e il sound è a tratti disturbato. È un peccato che in questo inizio indeciso si perdano alcuni dei brani più interessanti dell’ultimo disco (“Death In Midsummer”, “No Ones Sleeping” e “What Happens to People”) ma soprattutto la struggente “Helicopter”, che con quelle contaminazioni fra r’n’b e dream-pop rappresenta l’inno per eccellenza dei Deerhunter. La band di Atlanta si lascia trasportare dalle emozioni circostanti e l’esecuzione della triade tratta da “The Halcyon Digest” (4AD, 2010)” (“Revival”, “Desire Lines” e “Sailing”) scalda finalmente l’atmosfera e restituisce coesione al gruppo. In particolare, in “Sailing” la fusione tra voce e scariche elettro-acustiche delle chitarre è da brividi. Il sound dei Deerhunter, pur essendo ormai un marchio di fabbrica inconfondibile, risulta sempre in qualche modo rinnovato. Uno degli elementi di novità più interessanti che emerge dal concerto è per esempio la crescita esponenziale del cantato di Bradford Cox, la cui voce, indissolubilmente sospesa fra il digitale e l’umano, ha acquisito maggiore autorevolezza e impatto sul paesaggio sonoro dispiegato dalla band: non è un caso che lo si veda meno alle chitarre e sempre più spesso con il microfono in mano intento a cantare, gridare e struggersi in lamentazioni mentre si aggira claudicante sul palco come fosse la versione replicante-automizzata di una fusione post-moderna tra Bob Dylan ed Elvis Presley.

Il finale è caratterizzato da esecuzioni più stratificate e complesse, a dimostrazione del percorso di incremento dello spettro sonoro che la band ha intrapreso con “Fading Frontier” (4AD, 2015).  E dunque si susseguono  “Take Care”, “Futurism”, “Plains”, “Coronado”, “Nocturne”, e infine l’encore onirico di “Cover me (Slowly) / Agoraphobia” che, prima della chiusura con “He Would Have Laughed”, ci riporta indietro alla “weird era” di “Microcastle / Weird Era Cont.” (Kranky, 2008), ricordandoci che, per quanto ultra-contemporanei e sfuggenti a ogni forma di categorizzazione, i Deerhunter restino pur sempre figli ed eredi legittimi dei “My Bloody Valentine” di “Loveless” (Creation Records, 1991).

(Emmanuel Di Tommaso)

 

Scaletta:

foto in home di Alice Blandini
foto sopra Instagram @paolo_dis
foto scaletta Paolo Bardelli