Kokoroko al Locomotiv, voci e suoni dalle comunità resistenti

Kokoroko, Locomotiv Club, Bologna Jazz Festival, 3 novembre 2019

Dopo i concerti di Milano e Roma, il giro d’Italia del tour europeo dei Kokoroko fa tappa al Locomotiv Club, in una dimensione accogliente e dall’atmosfera jazzy nonostante il sold-out. Il collettivo dei Kokoroko (parola della lingua orobo che significa “essere forti”), di stanza a Londra ma dalle radici culturali saldamente affondate in quella fascia di Black Atlantic che spazia dall’Africa Occidentale alla Jamaica e ai paesi caraibici, è senza dubbio una delle rivelazioni musicali del 2019: grazie ad esibizioni live brillanti e all’originalità di un sound meticcio che unisce le pulsioni afro-beat a suggestioni soul di stampo jazz, il gruppo si è guadagnato in breve tempo un’attenzione tutt’ora crescente sia da parte del pubblico che della critica. Anche al Locomotiv c’è grande attesa e quando il sipario rosso-lynchano si apre pare di trovarsi di fronte a un ritratto jazz di Jean-Michel Basquiat: la disposizione a semicerchio dei componenti della band sul palco segue lo schema di interplay che caratterizzerà la successione dei brani musicali per tutta la durata del concerto. A sinistra del palco troviamo i due agenti del caos della serata: Tobi Adenalike-Johnson alla chitarra e Yohan Kebede alle tastiere danno vita a una serie di mantra assolistici perturbanti che trasportano la struttura sonora dei brani tessuta in particolare da fiati, percussioni e basso in direzioni inaspettate e indefinibili (qualcosa che resta in una via di mezzo fra l’afro-beat di Fela Kuti e Pat Thomas e la psichedelia funky-elettrica di Prince e del Carlos Santana degli esordi). Dalla destra emergono invece le derive percussive-tribali di Onome Ighamre alle percussioni, di Ayo Salawu alla batteria e di Mutale Chashi al basso che aggiungono profondità e ritmo frenetico alle composizioni. Al centro della scena c’è infine il tris di fiati composto da Sheila Maurice-Grey alla tromba, Cassie Kinoshi al sassofono e Richie Seivewright al trombone, che costituiscono l’anima più classic-jazz del gruppo e rivestono il ruolo di direttrici d’orchestra, sia quando suonano i fiati all’unisono distendendo e stratificando le melodie, sia quando spezzano il ritmo dipingendo assoli che ricordano molto le bufere di fiati scatenate da Kamasi Washington e da Pharoah Sanders. Anche quando sono gli altri strumenti a suonare, le tre donne restano sul palco a incendiare l’atmosfera, inseguire il ritmo con i corpi e incitare il pubblico a lasciarsi andare.

In poco più di un’ora e mezza di grande intensità, i Kokoroko eseguono una successione di brani dilatati in digressioni oniriche, fino a giungere al finale tanto atteso: “Abusey Junction” non è una canzone ma un inno della black-music contemporanea, l’istantanea di un tramonto africano che lentamente allunga le ombre dei passanti sulle strade di frontiera. L’esecuzione dal vivo è di quelle memorabili: le luci sono soffuse, la poesia del riff di chitarra elettrica che fa da colonna portante al brano si espande nell’atmosfera, scompare e riaffiora di continuo, fondendosi con i silenzi difettivi generati dal tappeto percussivo a tratti impercettibile, e con il lamento dei fiati che nel refrain si fa vociferazione di comunità resistenti alla violenza dello sradicamento.

La dimensione live dei Kokoroko li consolida ancora di più come gruppo emergente che aspira a diventare emblema di un’epoca di rigenerazione multiculturale della musica e delle società in cui viviamo.

(Emmanuel Di Tommaso)

Tutte le foto di Giorgio Lamonica: