STEVE GUNN, “The Unseen in Between” (Matador, 2019)

Quando si pensa alla figura tipica del songwriter, il primo nome che viene in mente non è certo quello di Steve Gunn, chitarrista di Lansdowne – quartiere di Philadelphia dove è cresciuto anche Kurt Vile – e poi di stanza a New York dal 2009, che ha sempre fatto dell’improvvisazione la sua ragione artistico-creativa.
Da anni, però, da “Time Off” del 2013, forse, Gunn, non più chiuso nella “cameretta” a suonare in solitaria (o quasi) come – ad esempio – in “Boerum Palace” del 2009, si apre al mondo cercando di portare le proprie composizioni chitarristiche dall’improvvisazione free all’artigianato autoriale, suonando con una band in un studio vero e proprio, con l’obiettivo di mettere insieme tutte le sue influenze musicali, frutto anche delle sue numerose collaborazioni (John Truscinski, Hiss Golden Messenger e tanti altri) : dall’american primitivism al folk inglese (in “Sundowner” del 2008, aveva coverizzato – non a caso – “Over the Hill” John Martyn), dalla musica indiana a quella africana (si senta un brano come “Tommy’s Congo” pubblicato in “Way Out Weather” del 2014).
Questo percorso verso la forma canzone più classica, rock oriented se così vogliamo chiamarla, ha in Eyes on the Lines del 2016 un primo punto di partenza con passaggi alla Television o alla Sonic Youth, e in “The Unseen in Between”, uscito a gennaio 2019, un punto di (quasi) arrivo – un’ulteriore fase di transizione.
“New Moon”, traccia di apertura che si snoda intorno al vibrato di chitarra alla Johnny Marr (tra i chitarristi preferiti di Gunn) accompagnato dal contrabbasso di Tony Garnier (collaboratore di lungo corso di Bob Dylan), è una dichiarazione d’intenti : un percorso verso una scrittura semplice ma pur sempre profonda e sfaccettata, che racconta in maniera cinematografica frammenti di storie di personaggi, sentimenti nascosti sotto la superficie, in “un posto che nessuno sembra conoscere”. La successiva “Vagabond”, “pop” come mai prima (con gli interventi vocali di Meg Baird) e liberamente ispirata al film omonimo (del 1985) di Agnès Varda (“mona came from the sea” – Mona Bergeron, la protagonista della pellicola? – e “jean-pierre came from the road”), si ricollega a questo tentativo di naturalizzazione dell’approccio di Gunn versa la forma canzone, che raggiunge forse il culmine nel brano che chiude l’album, “Paranoid” : una ballata dal forte impatto pop, quasi lennoniana, con passaggi psichedelici. Queste proiezioni verso la genuinità della scrittura (pop) passano attraverso momenti tra intrecci acustici ed immediatezza elettrica, tra brani toccanti – solo chitarra acustica e contrabbasso – come “Stonerhust Cowboy” (dedicato al padre di Gunn, continuazione ideale di “Ark” del disco precedente) e pezzi come “Lighting Field”, incrocio tra le trame sonore di una chitarra acustica con quelle di un’elettrica.
“The Unseen in Between”, prodotto da James Elkington (già elemento portante di “Way out Weather” ed “Eyes on the Line”), è quindi il disco che avvicina sempre di più Steve Gunn al concetto classico di songwriting : il tentativo, riuscito, di unire in modo spontaneo nello spazio di una canzone parte sonora, strumentale (con l’intenzione di renderla più semplice possibile) e vocale.

75/100
(Monica Mazzoli)