[aapoc] Le parole dell’arte: se fosse l’immagine a guardare noi

Con il libro di Horst Bredekamp dal titolo Immagini che ci guardano. Teoria dell’atto iconico(Traduzione di Simone Buttazzi, Raffaello Cortina), mi accorgo che il mio interesse per le parole dell’arte sta diventando sempre più sensibile al mondo degli studiosi che operano in Germania.

Ciò che mi convince è lo studio delle reazioni emotive di fronte a ogni genere d’immagine, non solo quelle dell’arte e l’esortazione a prenderle sul serio.

Se accettiamo la sfida, parlarne diventa una questione spinosa che tocca ambiti disciplinari sconosciuti e ciò potrebbe indurre a chiusure che non è proprio il caso di avere.

Diventa sempre più evidente cioè che guardare le immagini da questo punto di vista significa interferire profondamente nel nostro sistema di valori e in generale, in tutto ciò che consideriamo valido e degno.

Eppure, in un mondo pieno di foto, collages, copie che convivono accanto agli originali, ritocchi, trasformazioni dell’esistente in pose sempre più artificiose e memi altamente pervasivi siamo chiamati ad un impegno che passa anche dall’esplicitazione di questi valori, cercando di essere consapevoli del loro fascino.

Nelle università tedesche questo modo di studiare le immagini è una disciplina con un suo nome proprio: Bild wissenschaft – e la considerano la scienza delle immagini.

Questa metodologia sperimentale in sostanza, le studia per ciò che sono, conscia delle mille stratificazioni che ne sottendono la loro interpretazione e creazione. Permette di mettere in gioco interessi disciplinari differenti, dall’antropologia alle scienze naturali, dalla psicologia alle scienze cognitive perché è convinta di una verità: le immagini una volta prodotte, diventano autonome e incutono ammirazione e paura e comunque vada sono in grado di suscitare sensazioni fortissime, come se avessero un’efficacia che va al di là delle parole.

Mi trovo a pensare che a mio avviso l’efficacia delle immagini è tale da non aver nemmeno bisogno di quel come e che l’impegno di alcuni studiosi che ho amato in passato andava nella direzione di offrire un vademecum di strumenti utili a capirne la proliferazione.

L’autore individua per ogni tipologia di immagine (dalla fotografia dell’agente segreto Alexandr Lirvinenko morente al disegno di un sarcofago del XV secolo), la loro consistenza, le relazioni che instaura quando è in concatenamento con le altre per arrivare poi alle stratificazioni che si sono succedute nei secoli, in cui il fattore storico si intreccia con le conformazioni territoriali in un gioco sempre inedito di condivisione non gerarchica, scarto e persistenza.

Tutto questo ovviamente ha come fondamento il progressivo discredito della parola. Pur non stilando classifiche tra parola e immagine mi pare che in tutto il libro si dia per accettata una questione fondamentale: non potendosi più avvalere della razionalità del pensiero logico sulla quale poggiava in passato, la parola è sempre più sostituita dall’immagine.

Quest’ultima però è tutt’altro che controllabile. A volte è elementare nella realizzazione, ma questo non significa che sia semplice da capire o più immediata. In realtà, ciò che Bredekamp ci dice è che lunghi anni di studi e la strenua volontà di riportare le immagini e l’atto del guardare all’interno delle più vive connessioni con l’estesa gamma umanistico scientifica, ci testimoniano del contrario: l’immagine si nutre del sapere umano e intrattiene rapporti strettissimi con l’etica.

Non possiamo permetterci cioè di pensare che le immagini siano solo ornamento e superficie, perché è piuttosto arrivato il momento di analizzarle in quanto interazione dinamica fra chi le crea e chi le fruisce.

E c’è di più: il tentativo di questi studiosi è quello di non incorrere nei pericoli relativi al fatto che le immagini non sono mai scevre di conseguenze sull’agire individuale e sociale.

Insomma, come dicevo, oltre ad essere una disciplina, questo è proprio un orientamento metodologico. L’elenco degli autori che fanno parte della teoria sull’immagine è più sostanzioso, ma i due che raccolgo sulla mia scrivania e che fanno parte di questa scuola, sono, oltre a Bredekamp (Humboldt Universität di Berlino), anche Hans Belting (emerito dell’Università di Heildelberg).

Entrambi stanno cercando già da qualche anno di sviluppare l’imagologia, ovvero lo studio delle immagini separandole dalla storia dell’arte e dunque da qualsiasi tentazione storicistica, con tutte le implicazioni distribuite dentro linee di relazione, comprendenti l’elaborazione mentale dei dati visivi, la loro interpretazione, la loro relatività culturale, e così via.

Ne risultano libri evidentemente densi con una vertiginosa ampiezza di casi studiati che ha il merito di assumersi il carico di responsabilità che uno studio del genere comporta. È così che si passa dall’arte paleolitica ai tableau vivant e da qui alle performance di Vanessa Beecroft lasciandosi trasportare dal concetto di individualismo e di critica all’empatia.

Altri strumenti utili saranno le tre tipologie di atti iconici o forze che consentono all’immagine di balzare da uno stato di “latenza all’efficacia esteriore”. Questo genere di efficacia – premette l’autore – si dà in una sorta di triplice sostanza: la prima è data dall’atto icononico schematico, la seconda è quella dell’atto sostitutivo e la terza dall’atto iconico intrinseco.

Per atto iconico schematico si intende tutto ciò che del visibile permette che ci sia scambio fra vita e manufatto. Gli appartengono le immagini fatte ad arte che si confondono con i nostri corpi. Vi fanno parte opere che mimano la vita e dunque l’elenco di statue, tableau vivants, automi, bioartefatti che da sempre hanno suscitato importanti riflessioni piscologiche sulle categorie del perturbante freudiano.

Nel paragrafo sulle bambole surrealiste ad esempio si fa riferimento al fatto che sin dalla loro prima apparizione, i manichini dei negozi sono assimilabili al mito di Pigmalione e come tali in grado di suscitare ben più che una semplice fascinazione per ciò che indossano.

In piena sintonia con quanto già manifestato dalla collezione di bambole a grandezza naturale di Oskar Kokoschka, alcuni artisti surrealisti come Hans Bellmer costruiscono bambole di grandi dimensioni basandosi sui nuovi miti femminili e androgini creati dagli scrittori del calibro di E.T.A Hoffmann. Sensualità aggressiva e scandalo sono le parole d’ordine. Creature dell’orrore diventano ovviamente, queste bambole quando poi saranno naturalmente proseguite dalle immagini che Cindy Shermann creerà col suo corpo.

Hans Bellmer – Doll 1934

Quando parla di atto iconico sostitutivo abbiamo a che fare con un visibile che punta a rimpiazzare la natura. Il manufatto ha facoltà di sostituire il corpo perché non ci sono altre immagini oltre a quelle.

Basterà pensare alla Vera Icona, per intenderci. Ci sono poi i simboli collettivi come le monete nei quali riconoscersi e le immagini diffamatorie con i suoi meccanismi identificativi. Le immagini di cui si è avvalsa per secoli la magia col suo potere di autosuggestione ma anche certa fotografia, così come ci ha già raccontato Susan Sontag.

È questo il caso in cui non basta fare riferimento all’infusione di vita nell’opera o al problema dell’autenticità quanto alla concreta possibilità di sostituire il corpo vero con quello raffigurato. Ne deriva come ovvia conseguenza la manipolazione o l’iconoclastia in contesti di guerra o di controllo del potere. Nel paragrafo sulla guerra mondiale delle immagini, il tema diventa importante.

La guerra combattuta anche a suon di immagini, specie quando gli eserciti non dispongono degli apparati bellici ultramoderni, è un argomento che ci porta fino alla guerra massmediale condotta dall’esercito talebano contro le statue buddiste di Bamiyan nel 2001.

scempio a Mosul

L’obiettivo si capisce, era quello di colpire il nemico nel suo lato debole: l’ipersensibile campo delle immagini. Il carico di violenza cioè, poggiava proprio sull’averci fatto vedere come si può combattere, non facendo alcuna differenza tra opere e esseri umani. Da questa prospettiva, questa loro guerra può essere considerata vittoriosa. Lo confermano le altre immagini del 2014 quando, questi nuovi iconoclasti, danno avvio allo spettacolo delle esecuzioni capitali.

Azioni costruite secondo precise modalità sceniche, che sono ancora una volta di grande rispetto per la visualità. Si uccide il corpo per rendere omaggio all’immagine. Per fermare questo scempio allora, dovremmo accorgerci di essere arrivati ad un crocevia importante: abbiamo bisogno di una politica che tenga conto di questi studi e che sia in grado di costruire una “passi della presa di distanza” – conclude l’autore, “tanto urgente quanto remota.” E “remota” è qui la parola che mi allarma più di altre. Mi allarma perché mi accorgo della difficoltà di gettare un ponte tra processo biologico ed esperienza consapevole a beneficio di tutti (e non solo degli addetti ai lavori) e mi allarma perché la storia dell’arte ha trascurato fin troppo il ruolo dell’osservatore e in alcuni casi, l’esplosività delle sue emozioni.

Forte di questo interesse, arrivo al terzo e ultimo strumento di lavoro che è l’atto iconico intrinseco. Questo ha a che fare con il modellarsi della forma in relazione al nostro sguardo ed è quello che continua ad agire anche a distanza e fuori dal proprio contesto.

L’immagine non è veicolo semplice ma in molti casi diventa attore mosso da una sua specifica volontà di agire, di guardarci.

Ovviamente una simile teoria mi richiama alla mente quella di Didi Hubermann e mi rimanda agli studiosi e filosofi – non di area tedesca – che portano avanti la lezione warburghiana delle pathosformel. Nel paragrafo sulla prospettiva multipla del disegno ci dice che è nel codice scritto da Aby Warburg che si fissa il pathos come reazione corporea con una sua specifica forma.

Cover

La grande emozione cioè si rappresenta sempre con lo stesso fermo-immagine: vibrante e ondulata. Tanto nelle immagini di personaggi che subiscono gli attacchi della paura quanto di quelli che si mostrano trionfanti alla fine di una battaglia e ciò non in ragione del fatto che il pathos sia stabile quanto al contrario, che si tratti di una continua riattualizzazione di una forma pressata in qualche modo dall’esigenza di rappresentare pericoli interni o esterni.

Si tratta cioè di “una versione inconscia della psicoanalisi – conclude Bredekamp – in quanto anche in questo caso il nucleo spirituale dell’uomo non giace nelle aree centrali dell’osservazione, come possono essere il viso o i gesti controllati delle mani, bensì nelle attività motorie”.

Da qui è ovvio che si può cominciare a parlare della formulazione di una nuova estetica empatica.

Come si vede da ciò che ho selezionato di raccontare, sono tante le occasioni di confronto offerte da questa teoria multidisciplinare e molto ci sarebbe ancora da fare.

Ciò che mi convince è che questa disciplina sembra basarsi su una valorizzazione dell’autonomia dell’opera sia rispetto alla funzione predominante dell’artista che le crea, sia nei confronti del protagonismo critico-ermeneutico dell’interprete.

Un’autonomia che ricorda moti altri autori e l’idea benjaminiana di una maturità postuma dell’opera che attende di essere riconosciuta ma la cui identità prescinde da chi la recepisce. A me continua a sollecitarmi, nella direzione dei meccanismi neuronali studiati da Antonio Damasio, alla relazione tra corpo e emozione studiati da David Freedberg.

È necessaria cioè l’analisi dell’interpretazione come questione che ci rende evidente un fatto: non esiste uno sguardo vergine ma una possibilità per uno sguardo altro che determina l’interazione tra immagine e risposta emotiva.

Insomma, qualcuno potrebbe leggere gli effetti specifici di alcune immagini come fossero medicine o interpretare e trarre conclusioni sociopolitiche studiandone gli indici estetici più diffusi.

(Matilde Puleo)

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