AFRICA FOR AFRICA No. 3

“I’ve wrestled with alligators,
I’ve tussled with a whale.
I done handcuffed lightning,
And throw thunder in jail.
You know I’m bad.
Just last week, I murdered a rock,
Injured a stone, hospitalized a brick.
I’m so mean, I make medicine sick.”

Muhammad Ali (1942-2016)


GYEDU-BLAY AMBOLLEY, “The Message” (Analog Africa, 2018)

Imperdibile pubblicazione su Analog Africa: una edizione limitata su vinile dell’ultimo EP del leggendario classe 1947 Gyedu-Blay Ambolley. Musicista e multistrumentista fondamentale, il ghanese Ambolley è stato un vero e proprio iniziatore rivoluzionario per quello che riguarda la musica dell’intero continente africano, quando nel 1973 con la pubblicazione del disco “Simigwa-do” inventò letteralmente un nuovo genere musicale (appunto denominato “Simigwa”) che mescolava la funk music con quello che viene definitivo come “high-life”, la musica tradizionale del suo paese e dando vita a quel “Ghana Soundz” che poi egli stesso ha contribuito ad esportare nel resto del mondo e in particolare negli Stati Uniti d’America.

Ambolley ha una discografia molto variegata. Del resto è sulle scene sin dagli anni sessanta come membro di gruppi come Stargazers e Uhuru Dance Band. Poi arrivò “Simingwa-do” e il successo nell’Africa Occidentale e le esperienze come fondatore e leader di Apagya Show Band e Complex Soundz, una avventura che si concluse nel 1978, quando la carriera musicale di Ambolley ha preso una piega imprevedibile oppure semplicemente storicamente comprensibile considerando il suo background e le sue spinte innovative che non si sono poi tutto sommato mai interrotte sin dagli esordi. A questo punto infatti miscelando assieme il “Ghana Soundz”, il jazz e la musica elettronica, introducendo la componente sintetica nel suono, con una nuova band nel 1980 pubblicò il singolo di grande successo “The Message”, sette minuti di musica afro-funk e un successo (a proposito, se ci sentite dentro qualche componente del sound e attitudine di Gil Scott-Heron secondo me siete sulla buona strada) che segnò poi la sua svolta definitiva verso questo sound più cosmico e che possiamo sentire riedito con questa pubblicazione contornata da altri tre pezzi come il dub di “Akoko Ba”, il voodoo caraibico di “Simingwa Soca” e l’electro-funk di “Burkina Faso”. In due parole: semplicemente spaziale.


BIXIGA 70, “III” (Glitterbeat, 2015)

Abbiamo più volte considerato come parlare di musica africana significhi in molti casi andare anche al di là dei confini del continente: questo perché in qualche maniera tutto e tutti veniamo da lì e poi perché ragioni di natura storica e che molto spesso hanno avuto carattere drammatico, vogliono che la cultura del continente africano e la musica forse più che ogni altra forma di espressione, si siano diffuse variamente in giro per il mondo e da questo punto di vista il continente americano tutto è quello lì dove le tracce di questo lungo filo conduttore sono più evidenti. La Glitterbeat Records, che sta facendo un lavoro incredibile in questi anni, ha annunciato negli ultimi giorni l’uscita del prossimo disco dei Bixiga 70 e il prossimo tour europeo che si terrà tra ottobre e novembre (purtroppo al momento non sono previste date italiane). L’occasione è in questo senso propizia per presentare questo fantastico ensemble ai lettori di questa piccola rubrica presentando il loro ultimo LP in studio.

Il disco si intitola semplicemente “III” (2015) ed è stato registrato dal gruppo al Traquitana di San Paolo e pubblicato sulla loro etichetta eponima, prima di essere riproposto su Glitterbeat.

I Bixiga 70, vanno introdotti in maniera adeguata, sono un collettivo di 10 elementoti formatosi nel 2010 e che riprende in primo luogo le esperienze più fondamentali e influenti della musica africana come quelle di Fela Kuti e Mulatu Astatke, ma allo stesso tempo considerano queste come punto di incontro con il tropicalismo di Gilberto Gil e che è chiaramente componente centrale della cultura musicale del gigantesco paese del continente sudamericano. Ma c’è di più: “Bixiga” è infatti il nome del quartiere del centro di San Paolo che più che ogni altro vede mescolanza di persone che hanno origini provenienti da ogni parte del mondo, tra questi anche italiani e provenienti dalle regioni del nord-est europeo. Che significa che come sono state fatte tante considerazioni sulla nascita della musica nord-americana e in particolare per quello che riguarda il blues e il rock, qui vale la stessa considerazione: il sound di questo gruppo (le cui composizioni sono esclusivamente strumentali) è qualche cosa di unico, sebbene derivativo, e che non potrà che entusiasmare ogni ascoltatore.

Il bello del resto è che non si riesce a tracciare una linea netta in ognuna delle nove tracce del disco in cui separare il sound più tipicamente afro-beat oppure ethio-jazz dalla componente “latina” oppure caraibica del suono di questo gruppo e qui sta la grandezza di questa opera tanto sul piano puramente concettuale che su quello delle capacità tecniche e del risultato finale. L’ascolto giustifica ampiamente le aspettative per il prossimo annunciato capitolo della loro discografia.


BIXIGA 70 MEETS VICTOR RICE, “The Copan Connection” (Glitterbeat, 2016)

La fortunata pubblicazione dell’album “III” di Bixiga 70, il collettivo brasiliano proveniente dall’omonimo quartiere del centro di San Paolo, Brasile, ha avuto un immediato riconoscimento e riscontro e a questo punto anche questa che possiamo definire come una appendice vera e propria al disco. Parlo di “The Copan Connection: Bixiga 70 meets Victor Rice”, un maestoso album di remix dell’album originale ad opera di un dubmaster tanto considerato quanto influente per quello che riguarda la scnea musicale brasiliana degli ultimi anni.

Victor Rice è nato a New York negli Stati Uniti d’America ma da anni vive e risiede a San Paolo. I suoi inizi nel mondo della musica sono legati all’onda ska della fine degli anni ottanta. In queli anni suonava il basso negli Scottflaws. Negli ultimi anni ha collaborato alla produzione di artisti brasiliani tanto emergenti quanto affermati come Elza Soares. Nel 2008 ha costruito il suo studio di registrazione, lo Studio Copan, così nominato perché si trova all’interno dello spettacolare edificio omonimo nel centro di San Paolo. Dal 2010 dirige una sua edichetta discografia, la Total Running Time, c’è lui dietro il successo di Tulipa Ruiz e il grammy per il miglior album di musica pop brasiliana del 2015.

Fatte le debite presentazioni, se avete già ascoltato “III” e conoscete i Bixiga 70 e se conoscete anche Victor Rice tanto meglio, non è difficile immaginare che cosa ci si possa aspettare da questo album le cui sette tracce sono chiaramente dei remix dell’album originale e con una impronta marcatamente dub che aggiunge al sound una impronta quasi voodoo forse accentuandone la componente più latina oppure caraibica a dispetto del sound più tipicamente beat e jazz. Ciononostante non penso sia corretto considerarlo del tutto fuori contesto, la componente afrobeat resta tutta anche se immersa dentro questo groove e queste ossessioni dove spicca e domina imperioso il sound del basso e secondo una consolidata tradizione dub e derivata dallo ska, quello dei fiati. Pubblicato in occasione del Record Store Day 2016, ugualmente bello quanto l’album originale, “The Copan Connection” è sicuramente più che una semplice appendice, come definita in apertura di pagina, ma un disco che ha una propria dignità e un bel trip di musica acida e psichedelica in una dimensione caleidoscopico-tribale.


JIMI TENOR & TONY ALLEN, “OTO Live Series” (Moog Recordings Library, 2018)

Jimi Tenor aka Lassi Lehto e Tony Allen hanno radici diverse e una differente estrazione culturale e geografica, ma il linguaggio universale dell’avant-jazz e dell’afro-beat ha inevitabilmente voluto che i due si incontrassero. La cosa del resto era inevitabile: entrambi sono due musicisti poliedrici, persino geniali e entrambi si sono disimpegnati negli anni in una moltitudine innumerevole di progetti e che li ha portati a trascendere ogni genere e contaminare il sound jazz con sfumature e influenze diverse e portare il loro contributo in progetti anche orientati verso ambientazioni più pop, vedi la partnership con artisti come Aphex Twin (Jimi Tenor) oppure Damon Albarn (Tony Allen). Intrapresa negli anni anche una forma di collaborazione i due musicisti pubblicarono già nel 2009 un doppio LP di inediti per la Strut Records, praticamente uno dei capitoli della serie “Inspiration Information”. Oggi questo unico capitolo si arricchisce con una nuova pubblicazione registrata dal vivo nel settembre del 2017 durante una performance al Café Oto di Londra e che si costituisce praticametne il primo capitolo di una “OTO Live Series” dedicata e edita su Moog Recordings Library.

La registrazione è avvenuta in presa diretta e guidata da Finlay Shakespeare e consiste in sei lunghe tracce e che si potrebbero poi a tutti gli effetti definire come delle vere e proprie jam session di musica spaziale. Il disco è del resto stato definitivo come qualche cosa di assolutamente esplosivo, la stessa label ha addirittura fatto degli accostamenti al suono cosmico funk dei Deutsch Amerikanische Frenundschaft. Ma per dirla tutta questo paragone qui va proprio stretto perché non ci sono pose estetiche e claustrofobia, ma al contrario una propensione verso forme di musica cosmica derivate da Sun Ra ma chiaramente riviste alla luce dell’avant-jazz e dimensione funky di natura afro-beat e che si arricchiscono peraltro di sezioni sintetiche vibranti e quasi disco, luci stroboscopiche e il sound sincompato e geniale del drumming di Tony Allen.

Assolutamente acido e allo stesso tempo ipnotico, non mancano parti cantate e in cui si compongono espressioni soul e recital e “break” beat e che ricordano anche forme da hip hop, ispirazioni Gil Scott-Heron, e qualche similitudine con l’ultimo LP registrato da David Murray e Saul Williams e ispirato alla ideologia rivoluzionaria del poeta e scrittore Amiri Baraka. Tutto troppo bello per non poter essere che avvvenuto una sola volta dal vivo.


HUGH MASEKELA, “The Chisa Years 1965-1976 (Rare And Unreleased)” (BBE, 2018)

La storia di Hugh Masekela è quella della storia del suo paese d’origini e cui ha dedicato tutto il suo impegno sociale e politico. Virtuoso di tromba, filicorno, cornetta, Masekela è stato probabilmente il musicista più popolare della storia del Sud Africa, anche perché la sua storia musicale si incrocia in maniera inevitabile con la storia del paese e con il suo impegno in prima persona nella lotta contro l’apartheid. Comincia la sua carriera in Sud Africa negli anni cinquanta, ma dopo il massacro di Shaperville e l’inasprirsi del regime dell’apartheid, va negli Stati Uniti d’America, dove frequenta musicisti come Louis Armstrong, Harry Belafonte, Dizzie Gillespie, Miles Davis… Diventa una celebrità, diventa amico di Dennis Hopper e Peter Fonda, suona con Jimi Hendrix, Janis Joplin, ma è chiaro da subito che si tratti di una figura difficile da inquadrare e che per gli Stati Uniti d’America è troppo fuori dagli schemi per potere essere inquadrata. Allora se ne torna in Africa dove comincia a viaggiare per tutto il continente, chiaramente incrocia il suo cammino con quello di Fela Kuti, probabilmente nessuno più di loro due ha rappresentato anche una specie di “icona” per quello che riguarda la musica africana e il suo accompagnarsi alla lota e l’impegno sociale e politico, ma ritornerà in pianta stabile nel suo paese solo dopo la scarcerazione di Nelson Mandela.

Seguono due considerazioni che in qualche maniera sono facilmente derivative da questa introduzione: 1. Hugh Masekela vanta una produzione discografica gigantesca. Ha registrato più di 40 LP, ma se a questi aggiungiamo anche tutte le collaborazioni e tutti i suoi lavori come producer, penso sia sinceramente difficile fare una effettiva quantificazione; 2. Hugh Masekela era un musicista difficile da inquadrare. Le definizioni generiche di “jazz” e “afro-beat” non sono sbagliate, ma ascoltando i suoi dischi è evidente che il suo sound sia in primo luogo fortemente contaminato dallo stile “mbaqanga” della popolazione Zulu del Sud Africa, come da sonorità funky e rhythm and blues.

Masekela fu titolare anche di una sua label discografica, fondata e guidata in compagnia di Steward Levine. Il materiale contenuto in questa pubblicazione riproposta lo scorso maggio dalla BBE, recupera effettivamente 14 tracce registrate tra il 1965 e il 1976. Praticamente delle rarità e delle pubblicazioni inedite. Del resto a parte il groove funky-soul di “Afro Beat Blues”, le altre canzoni hanno interpreti diversi. Tra i principali artisti abbiamo la grandissima Letta Mbulu. Originaria di Soweto, un sobborgo di Johannesburg e pupilla di Harry Belafonte, meriterebbe un capitolo a parte a lei dedicato perché sicuramente una delle voci più belle e potenti io abbia mai ascoltato. In effetti la maggior parte delle canzoni sono proprio interpretate da Letta, che in tre occasioni si accompagna anche al gruppo vocale The Zulus. Non di minore importanza il ruolo del gruppo afro-latino Baranta, accompagnato dalla vocalist Miatta Fahinbulleh, uno stile completamente diverso da quello di Letta, ma comunque efficace nel contesto fusion del gruppo capitanato da serralionese Francis Fuster e il kenyota Sultan Makendé e peraltro ancora oggi attivo.

Masekela accompagna comunque con la sua tromba tutte le performance di Letta Mbulu e nella compilation è regalato anche un piccolo spazio a un suo progetto dimenticato, la Johanesburg Street Band. Per il resto è inutile dire che i contenuti sono comunque tutti centrati sia musicalmente che per quello che riguarda anche gli aspetti concettuali tanto nella celebrazione e revisione della cultura e del sound del continente africano, tanto quanto affrontare tematiche storiche e sociali: chiaramente l’apartheid, ma come non menzionare anche i riferimenti alla tragica storia del Congo a partire dall’inizio del secolo scorso con le brutalità e le violenze commesse dalla colonizzazione belga.

Se dovessi dare un voto a questa compilation, penso che gli darei il massimo voto possibile. Pensare che questo materiale non fosse tra quello considerato come fondamentale della Chisa, può dare sicuramente una indicazione su quanto questa scena fosse prolifica e su quanto sia stato grande come musicista e come uomo Masekela. È deceduto lo scorso gennaio a Johannesburg. Da anni soffriva di cancro. Tra le tante celebrazioni e frasi che lo hanno voluto ricordare, ce n’è una che mi ha colpito in maniera particolare. È di Nathi Mthetwa, il ministro sudafricano per le arti e la cultura: “Il paese ha perso uno dei grandi architetti dell’afro-jazz, che ha elevato lo spirito della nazione attraverso la sua musica immortale. È crollato un baobab.”


THE JOHANNESBURG STREET BAND, “Dancin’ Through The Street” (UNI Records, 1968)
Parlare di Hugh Masekela, va da sé, richiede oppure meglio richiederebbe veramente degli spazi enormi. Tra le sue tante produzioni e progetti in cui si è impegnato direttamente, un piccolo grande spazio merita anche la sua esperienza con il collettivo The Johannesburg Street Band, un complesso di musicisti composto da cinque elementi, tra cui lo stesso Masekela alla tromba: i suoi fidi collaboratori Bruce Langhorne, Al Abreau e Henry Franklin; Wayne Henderson e Wilton Felder dei Jazz Crusaders. Il disco per la verità viene considerato dai critici a tutti gli effetti come un album del solo Masekela, che volle tuttavia presentarlo come un album realizzato dall’intero collettivo.

Registrato a Los Angeles nel 1968, “Dancin’ Through The Streets” sono dieci composizioni di musica jazz africana e contaminata dal sound mbaquanga e marabi. I suoni sono pieni di questi stessi colori che vengono generalmente abbinati al continente africano; le canzoni sono solo strumentali, hanno una durata breve, sono volutamente ripetitive fino a letteralmente immergere l’ascoltatore in una dimensione estatica, vengono suonati gli stessi giri in una maniera quasi ossessiva, il groove è assolutamente coinvolgente, ballabile, il suono è una espressione di pura gioia. Masekela ha parlato di musica da gentiluomini. Gentiluomini che hanno nel loro destino una mission da compiere e che li segue dal Sud Africa e poi in giro per il mondo in fuga dall’apartheid e passando attraverso frustrazioni e pazzia, dolori e sofferenza, scampando alla morte per le strade violente di Johannesburg negli anni cinquanta e sessanta e poi cercando fortuna in giro per il mondo. La missione da compiere è quella di diffondere nel mondo la musica e la cultura del Sud Africa. È un atto di amore nei confronti del proprio paese quanto del mondo intero: quello di permettere che questa musica possa essere ascoltata ovunque. Vale veamente la pena di andarsi a ricercare questo disco pubblicato solo nel 1968 e mai più ristampato, ma per fortuna non di difficile reperimento attraverso i moderni strumenti di file sharing sul web.


MUSHUPATA KABANGU, “Saba – Saba Fighting” (Akuphone, 2018)

Il problema di molte registrazioni che riguardino artisti provenienti dall’Africa e fino agli anni novanta sono difficili da reperire. Molta roba è stata pubblicata in edizioni di numero limitato e magari anche solo diffuse solo nel continente africano, altre sono per quanto di grande valore artistico e interesse, difficili da trovare a distanza di tanti anni. In questo senso operazioni come questa qui della Akuphone sono una vera manna dal cielo. Come avremmo fatto altrimenti a conoscere Mushupata Kabangu. Nato a Bukavu nella Repubblica Democratica del Congo (allora Zaire), sulla linea di fonfine col Burindi, Mushupata arriva in Francia nel 1975, ma allora la sua storia personale non ha praticamente nulla a che fare con il mondo della musica. Mushupata Kabangu è un pugile. Solo qualche mese prima a Kinshasa, il 30 ottobre 1974, il grande Mohammed Ali metteva al tappeto George Foreman sotto gli occhi del dittatore Mobutu Sese Seko e nel primo storico incontro organizzato da Don King. Ottenne per la seconda volta consecutiva il titolo dei pesi massimi. Prima di lui, solo Floyd Patterson.

Mushupata Kabangu arriva così a Lione nel 1975, ma dopo poco appende i guantoni al chiodo: fare il pugile in Francia come in tutta Europa è una brutta storia. La vita per gli immigrati dal continente africano allora come oggi si scontrava con razzismo e problemi di integrazione e poi si sa che la boxe è un mondo ingrato. Finisce così a fare praticamente il body-guard, si costruisce una certa fama nel mondo dell’underground parigino, fa persino da scorta a Bob Marley nel suo tour francese del 1980 e così nasce la scintilla per la musica. Registra due LP tra il 1980 e il 1984. Quattro pezzi sono oggi disponibili pubblicati su Akuphone in questa mini-compilation intitolato “Saba – Saba Fighting”.

Il mondo concettuale di Mushupata è chiaramente devoto al pan-africanismo: canta in lingua swahili, affronta temi sociali e nella scrittura si rivolge a figure centrali nelle lotte del mondo africano e in quello afro-americano, una storia che per forza di cose si intreccia con quella del continente di origine. Il suo punto di riferimento (manco a dirlo): Patrice Emery Lumumba. Il sound delle quattro tracce è una contaminazione tra afrobeat e le sonorità orientate verso il reggae che avevano cominciato a diffondersi in giro per il mondo proprio grazie alla figura di Bob Marley. La schizofrenia tribalista e potenziata dal suono acido dei fiati di “Muanago Yé-Yé”, il canto swahili “Kambere Mushimbe”, il reggae “Mudongo Wangu” e il groove quasi disco di “Zambe Aponiyo”. Tutto potente come una scarica di pugni da ko, forse rudimentale, eppure coinvolgente.

(Emiliano D’Aniello)