“Tomorrow’s Harvest” si metabolizza lentamente. Va ascoltato e riascoltato perché rimanga qualcosa. Sembra piatto, timido, con qualche scossa di quando in quando.
Ad un certo punto, poi, prende forma, si muove, gorgoglia, da “Reach for the Dead” a “White Cyclosa”, vera e propria sospensione del tempo, che porta dritti al ’93 e agli Autechre di “Incunabula”. C’è il risveglio lento in “Cold Heart”, inconfondibilmente, questa volta, dei fratelli Sandison. E ritornano, con “Nothing is Real”, a momenti, gli umori e le ambientazioni degli ancora inarrivabili “Music Has the Right to Children” e “Geogaddi”; colori lievi, attenuati, barlumi di luce che squarciano dense foschie mattutine. “Sick Times” macina battute, “Come to Dust” è l’ultimo, tracklist alla mano, dei pezzi che contano.
“Tomorrow’s Harvest” è il compitino con qualcosa in più. Quel qualcosa in più è dato dalla mano di chi ha fatto scuola, “nobilitando” il panorama della musica elettronica e contribuendo a riempire gli spazi rimasti liberi tra le smanie di più di una generazione di divoratori musicali. Di quelli legati al supporto ottico, alle riviste mensili, al sabato pomeriggio trascorso nel negozio di dischi che ormai non c’è più. Di quelli abituati all’attesa, che oggi, quando la morte del supporto sancisce anche la perdita di ogni senso per l’attesa stessa, cercano di ritrovare le sensazioni perdute in un album che affonda le radici in quel tempo.
Un lavoro che, come detto, insegue dalle retrovie, a testa alta, ma senza colmare mai la distanza, due album imprescindibili come quelli sopracitati (“Music Has the Right to Children” e “Geogaddi”), capaci di segnare il passaggio tra la fine dei ’90 e l’inizio degli ’00.
72/100
(Tommaso Artioli)
27 giugno 2013
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