Intervista ai Drink to Me

In coincidenza con la data d’uscita del nuovo disco “S”, i piemontesi Drink To Me hanno il loro tour promozionale partendo dal Circolo degli Artisti di Roma. Un concerto che s’è rivelato subito ben più di una data zero, di un banco di prova. Ha permesso di apprezzare meglio i nuovi brani. E se ci potevano essere dubbi sulla effettiva presa “live” delle nuove canzoni, sono stati fugati nell’arco del concerto romano. “S” è un album che merita di essere discusso perché si tratta di una delle uscite discografiche più interessanti degli ultimi anni in Italia. Un disco che nasce da un grande lavoro in studio da parte della band, come hanno confermato in un’intervista post concerto il cantante Marco Bianchi e il batterista Francesco Serasso.

Un’ottima occasione per scambiare impressioni a caldo anche sulla prima esibizione dal vivo di questo tour. “In questo nuovo album – dicono – abbiamo prima di tutto cambiato gli strumenti. E’ importante sottolinearlo, perché inserire in un gruppo strumenti nuovi è un po’ come mettere nuova benzina. Non è qualcosa che si pianifica, ma può succedere che si inizi a suonare qualche strumento appena comprato quasi per gioco. In questo senso hanno fatto molto i campionatori nell’economia di ‘S’. Anzi i campionamenti hanno vinto definitivamente sulle chitarre, terminando un processo iniziato dai tempi di ‘Brazil’. Tutti i suoni che poi dal vivo riproduciamo con i campionatori sono stati creati al computer. Soprattutto da me – specifica il cantante – che ho iniziato a lavorare al portatile mentre lavoravo nella portineria di una sede della Olivetti di Ivrea. In quel periodo mi sono potuto industriare con il mio portatile a lavorare ai vari loop e suoni che poi sono finiti nei nostri campionatori. E nel provare e selezionare questi suoni non c’è stata alla base la volontà di scrivere delle canzoni nuove, ma solo quella di creare nuove sonorità che ci piacessero”.

Alla base di questo nuovo disco c’è stato qualche ascolto specifico?
Per quanto riguarda i suoni campionati senza dubbio hanno influito ascolti di artisti che sfruttano molto questo metodo, come Dj Shadow o M.I.A., per esempio. Sicuramente questi e anche altri ascolti legati alla black music, fondamentali anche per “Brazil”, hanno avuto un ruolo importante per la registrazione di “S”. Però quello che abbiamo cercato in tutti i pezzi è sempre stato il groove, elemento fondamentale per noi più di tanti altri.

“S” pare un disco che si apprezza via via con gli ascolti. A un primo ascolto si gusta la fruibilità dei pezzi, poi nei successivi ci si accorge di tutto il lavoro che c’è sotto. Nello scrivere le nuove canzoni avete prima scritto la struttura portante del pezzo o invece avete curato l’aspetto sonoro?
Abbiamo prima preferito concentrarci sul sound. Ogni brano nasce da improvvisazioni in sala molto lunghe, anche di un’ora e mezza a volte. Da queste abbiamo estrapolato delle parti che ci piacevano di più. E nella fase successiva ripartivamo da quelle parti salvate. E’ nato tutto da improvvisazioni spontanee, non solo con i campionamenti ma anche con la batteria. Dopo viene tutto rielaborato in una forma canzone, che è davvero l’ultima cosa. Però i brani risultano più fruibili per l’impatto sonoro e per il grande lavoro fatto sulle parti vocali.

A proposito di impatto sonoro, mi pare che questo disco abbia anche molto calore a partire dall’inizio di “Henry Miller”, una cosa che s’è sentita anche stasera dal vivo.
Beh sì, speriamo che i pezzi stasera abbiano reso bene anche sul palco, e comunque dobbiamo ringraziare il nostro fonico che ha un ruolo importantissimo nei nostri concerti. Per gruppi come noi che suonano tanti strumenti un bravo fonico è assolutamente decisivo. Anche se nei nuovi pezzi le parti vocali, nel loro essere pop ed immediate, probabilmente reggerebbero bene anche senza nessun strumento sotto.

Da dove deriva la vostra scelta di cantare in inglese? Escludereste a priori la possibilità di registrare un disco in italiano?
Diciamo che non abbiamo particolari preclusioni per l’italiano, però abbiamo sempre optato per l’inglese. Penso – dice Marco Bianchi – che per elaborare dei testi in italiano mi ci vorrebbe un lavoro molto più lungo, per poter dire quello che voglio adattandolo alle musiche. La stessa “Henry Miller” avevo provato a cantarla in parte in italiano. Invece lavorando in inglese sono riuscito a metter giù dei buoni testi ed ho potuto esprimermi al meglio. Da questo punto di vista l’inglese è molto più comodo rispetto all’italiano, perché riesco a mettere su carta dei concetti in modo molto più breve e coinciso.

(Francesco Melis)

28 marzo 2012

(foto di Simona Russo – www.drinktome.net)

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