STARFUCKER, “Reptilians” (Polyvinyl, 2011)

Alla sua quinta uscita (compresi EP e la raccolta di b-sides del 2010), la band dell’Oregon, capitanata da Joshua Hodges, già dalla prima traccia sembra voler mettere in chiaro l’idea di sound per questo “Reptilians”. La spiazzante intro di chitarra classica di “Born” non è che un countdown per il trasferimento in uno spazio sonoro costantemente sospeso tra realtà pop e un’elettronica onirica che strizza l’occhio alle sperimentazioni più ipnotiche dei Chemical Brothers di “Dig your own hole” (“Where Do I begin”). E a proposito di citazioni, non si può non tener conto dell’eco lontana delle atmosfere acid-house di Stone Roses e degli Happy Mondays di “Bummed”.

Per “Reptilians”, gli Starfucker (già Pyramid e STRFKR) si avvalgono della collaborazione della “drum-machine umana”, così come lo definisce Hodges, Keil Corcoran, nonchè della produzione di Jacob Portrait (Dandy Warhols). Il risultato è accattivante. Tracce come “Astoria”, “The White of Noon” o “Hungry Ghost” risentono fortemente di queste influenze e confermano l’intenzione del “neo” quartetto di Portland (oltre che al polistrumentista Hodges, Corcoran si unisce a Ryan Biornstad -chitarra e voce- e Shawn Glassford -basso e tastiere-) di voler produrre una dance music da ascoltare ma anche da ballare: “You can actually listen to, that’s good pop songs, but also you can dance to it!” come suggerisce lo stesso Hodges.

Nulla di nuovo va ad aggiungersi al panorama musicale. Non si avverte una reale volontà di stupire o meravigliare l’ascoltatore, ma bensì di coinvolgerlo e tenerlo avvinghiato allo shuttle sonoro per un lasso di tempo che volge all’infinito. Ed è forse questa la vera forza di “Reptilians”, quella di mantenersi coerente per l’intera sequenza di brani (12 + 2 Bonus Tracks), nonostante le escursioni “hurry up” o tipicamente ballabili di pezzi quali “Mystery Cloud” o “Quality Time”.

Tracce essenziali, che scorrono leggere e trasognanti. Veri e propri spunti di note che ad ogni chiusura sembrano voler lasciare spazio all’immaginazione. Fino alla fine. Come se una volta scesi dallo shuttle, la musica restasse impressa nell’aria.

64/100

(David Capone)

9 marzo 2011

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