DIRTBOMBS, “Party Store” (In The Red, 2011)

Se, come credo, siete di quelli che inorridiscono al sentire parlare di techno e house e trovano gli album di cover nella migliore delle ipotesi inutili, il compito di questa recensione potrebbe diventare assai ardito. Cominciamo col dire che io fino a poco tempo fa avrei preferito una pistola alla tempia piuttosto che mettermi in cuffia della techno, anche se col marchio In The Red. Si cambia, col tempo, si sa, ma in realtà qui la partita è diversa.

Ecco che arriva Mick Collins a metterci sotto gli occhi una verità difficilmente confutabile: ma se le droghe, il sesso e l’asfalto sono sempre gli stessi, dove sta la differenza tra musiche nate nella e per la strada ? I suoi Dirtbombs sono diventati col tempo un tritacarne di garage-rock e r’n’b cui fatalmente e quasi inevitabilmente si unisce ora la techno. Ovviamente, non c’è epicentro più credibile per un’operazione del genere di Detroit.
La scaletta in ordine cronologico va dal 1981 al 1999 e qui c’è già il primo dato interessante: operazione nostalgia o piuttosto rivendicazione orgogliosa e appassionata del presente? Propenderei per la seconda, soprattutto da un ascolto comparato coi brani originali.

Nella prima parte del disco, ecco i pionieri: i Cybotron di “Cosmic Cars” si spostano dai Kraftwerk ai Queens of the Stone Age (per cui fra l’altro si spese a suo tempo la definizione di robot-rock), per un brano sporco di grasso e olio motore con un perfetto retrogusto di fantascienza da due soldi.
“Shari Vari” è il primo soffio al cuore, la vera prova del nove per i rockers che speravano si trattasse solo di uno scherzo. No, Mick fa sul serio e trascrive per chitarra, basso e batteria un groove insistente, licenzioso e, in definitiva, accattivante. Centro pieno con “Good Life” degli Inner City, primo successo vero della scena di Detroit e canovaccio per tantissima dance protagonista di buona parte degli anni ’90 (Corona, Datura e altri che credevamo di aver seppellito nell’inconscio). Una linea vocale già riuscita nell’originale, una specie di sorellina dance solare di “Unfinished Sympathy” dei Massive Attack, convince anche in versione maschile dato che, con un arrangiamento diverso, ce la saremmo fatta propinare molto volentieri dalla Motown.
“Strings Of Life” (Rhythim Is Rhythim) si asciuga, ma non perde molto come groove da pista da ballo o da macchina con la marmitta truccata. Ci guadagna semmai una muscolarità che per costituzione la musica elettronica non può avere (programmando una macchina certo non si suda come pestando un tamburo).
“Alleys On Your Mind” entra invece di prepotenza nel trend attuale (Cybotron is playing at my house?) e viene voglia di ascoltarla camminando sui marciapiedi trafficati di città con uno di quei giganteschi stereo a cassette tenuto in spalla.

Fin qua tutto divertente, ok, ma la Can-nonata vera, quella che ti lascia stravolto con la camicia sgualcita e le mutande in testa, è il trattamento riservato a “Bug in The Bass Bin” della Innerzone Orchestra di Carl Craig, passato di recente ai rinomati prosceni della musica classica. Stavolta il linguaggio è veramente stravolto, non c’è nulla della frenetica e raffinata stratificazione ritmica dell’originale. Al suo posto ventuno minuti e ventidue secondi di paranoia sensualissima, un unico groove mono-tono, un solo tempo di batteria, tre-note-tre di basso e chitarre a contorcersi ed espandersi per la gioia di qualunque corriere cosmico, specialmente se sessualmente depravato.
Qua dentro c’è di tutto: John Coltrane che guarda con sospetto un sintetizzatore, i MC5 sfatti all’ennesima canna che ridono come ebeti facendo fischiare le chitarre, i Chrome che provano a (s)comporre la colonna sonora di un film porno, Rolf-Ulrich Kaiser e Klaus Schulze abbandonati in una piantagione della Louisiana. Sembra l’atterraggio di una navicella aliena nel parcheggio davanti ad una fabbrica abbandonata, in mezzo a macchine coi giornali ad oscurare i vetri. Sensazionale.

Dopo un numero del genere passano quasi in secondo piano, immeritatamente, le riletture di “Jaguar” e “Tear The Club Up” (Dj Rolando e Dj Assault), più spaziale e carnosa la prima, sfogo punk ormonale per batteria la seconda, prima del non trascrivibile e ortodosso finale elettronico.

“Party Store” in finale è un album divertentissimo e un bel pentolone sporco in cui cuociono ad alta temperatura chitarre con le corde arrugginite e ritmi sintetici, melodie lascive e nenie robotiche, Love Parade e Festivalbar, oscuri white label e Deutch Grammophon.
Pare di vederlo, il buon Mick. Si è intrufolato in una festa a cui non era stato invitato e adesso, abbandonati per terra i cavi bruciati, con un sorriso beffardo sotto gli occhiali da sole, si sta sedendo per gioco sul trono lasciato momentaneamente incustodito da James Murphy.

70/100

(Lorenzo Centini)

7 marzo 2011

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