ROKY ERICKSON WITH OKKERVIL RIVER, True Love Cast Out All Evil (Anti, 2010)

Ho sempre pensato agli Okkervil River come ad una specie di versione musicale di quei narratori interessati a sviscerare l’anima profonda degli Stati Uniti, a trovare l’essenza delle cose nel cuore di un paese controverso, oscuro, apparentemente diviso in una dicotomia facile (bene/male, bianco/nero, destra/sinistra) ma in realtà frastagliato, controvoglia complicato. La vetta narrativa di Will Sheff e soci è stata “Black Sheep Boy”. Uno degli ultimi pezzi di quell’album, “So Come Back I’m Waiting” sembra proprio rispecchiare la loro tendenza verso il Grande Romanzo Americano. E poi, Roky Erickson. Personaggio da romanzo la cui vita fatta di psicosi, malattie e infermità varie lo ha avvicinato ai drop-out della letteratura, ai tramp, ai disadattati vittime della frenesia della civilizzazione. Personaggio in grado di andare “oltre” la vita, di regalarci i 13th Floor Elevators, di ridursi a strimpellare le chitarre acustiche in dischi imperfetti e pieni di disagio. Sulla carta, un matrimonio perfetto.

“True Love Cast Out All Evil” però, non sembra la fusione delle due parti. Roky canta, gli Okkervil suonano. Una backing band di lusso (stiamo pur sempre parlando di uno dei migliori gruppi in circolazione) per uno che la storia l’ha scritta veramente, che di “cose” ne ha viste – sia in questa che in altre dimensioni – e che di parlare sembra averne un grande bisogno. L’errore sarebbe considerarlo un album evento. Forse, considerando la quantità di inutile ciarpame che siamo costretti a sorbirci per essere sempre aggiornati e alla moda, ci siamo dimenticati come la bellezza e l’urgenza debbano essere la costante, non l’eccezione. Che senso ha perdere tempo nell’inutile? “True Love Cast Out All Evil” non ha niente di inutile. Si sente come Roky cerchi di mettersi a posto e di raccontare il suo viaggio nell’America nota e stranota dei Mark Twain, degli Ernest Hemingway e dei John Steinbeck. Ovviamente, chi si brucia con la realtà e la civiltà, cerca la verginità perduta nella wilderness, cerca di depurarsi cercando le suggestioni – anche qui, tipicamente americane – che portano l’uomo fuori dalla civiltà, a suonare una chitarra e fare quadrato attorno alle proprie ossessioni.

Personaggi incontrati lungo le strade. Situazioni da frontiera. Atmosfera fuori dal mondo. Un disco che è sì fatto di elettricità, effetti “spaziali”, e-bow e diavolerie tecniche, ma che sa di legno, di foreste, di vestiti sporchi e cappelli di paglia. È un viaggio tra l’amore e la morte, dove ci si imbatte in “John Lawman”, ci si concentra sui good ol’ times (“Bring Back The Past”) e si piomba nella realtà inserendo estratti di Roky Erickson registrati durante la sua permanenza negli ospedali psichiatrici. Forse più “denso” che non “bello” in senso comune, ma quello che rimane dall’ascolto di “True Love Cast Out All Evil” è quanto sia necessaria l’esperienza autentica per dire qualcosa di veramente sensazionale. Il resto è finzione. E quella va bene fino a un certo punto.

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