BOMB THE BASS, Future Chaos (K7 / Audioglobe, 2008)

Il leggendario dj e produttore inglese Tim Simenon aka Bomb the bass ritorna dopo anni d’assenza sul mercato con un nuovo lavoro intitolato “Future Chaos”. Il grande pioniere della musica dance (famoso per le sue collaborazioni con i Depeche Mode, i suoi bollenti dj set ad Amsterdam o a Londra e per la simpatica reputazione da presunto stupratore, per la quale accusa è stato poi scagionato) produce beat vaporosi e profondi, suggestivi ed efficaci, ma che, tutto sommato, di caotico o futuribile hanno davvero poco. La lezione più avangarde a cui le nuove tracce del genio dell’elettronica sembrano votarsi sono le sperimentazioni celebro-paracule dei Radiohead d’epoca di “Kid A” (che in ambito electro sono moderne come il neoclassicismo è moderno per uno storico dell’arte), naturalmente convogliando il tutto in una direzione decisamente più tamarra e minimale.

A caratterizzare “Future Chaos” ci pensano le tastierine da videogame di seconda generazione (Bomb the bass in un passato remoto musicò il tema sonoro introduttivo per “Xenon 2 Megablast” su consolle Amiga), bassi profondi imparentati col dub fighetto da club londinese, loop supereffettati, coretti e arrangiamenti gotici che fanno molto new wave e, soprattutto, le voci degli ospiti (David Best dei Fujiya & Miyagi, Jon Spencer, Paul Conboy, Toob e – udite, udite! – Mark Lanegan) che imitano se stessi o scimmiottano il Thom Yorke più ketaminico e il Dave Gahan più depresso.

L’introduttivo “Smog” è un pezzo fumoso già dal titolo, pura malinconia robotica guidata dalla voce di Paul Conboy (presente come lead vocal in cinque tracce su nove). “Butterfly”, invece, sfrutta le tinte kroutrock degli ospiti Fujiya & Miyagi, trasformando un beat frizzante e ben calibrato in un buon brano electro-pop. Le liriche Toob in delay donano a “Burn the Bunker” una polidimensionalità salutare, che traduce una grande passione per la poetica floydiana e, con la sua andatura veloce e nervosa, spezza la monotonia di un disco fatto di beat grossi e circolari, alla lunga, un po’ ridondanti e noiosi.

La delusione più grande è naturalmente nascosta nella traccia sette: la moscia e gracchiante “Black River”, dove l’adorato Mark Lanegan svende e svilisce la sua miracolosa voce in un groviglio inutile e pacchiano di loop scialbi e pseudo-alternativi (speriamo che l’operazione serva almeno a scoraggiare il nostro eroe da ricercare in futuro altri gettoni di presenza nel mercato elettronico). Il produttore inglese cerca un groove electro-house coniugato al passato prossimo della dark wave più radical chic, gioca con i nuovi linguaggi in auge nell’indie rock traslandoli in chiave elettronica, tentando approdi concettuali ed estetici, in realtà, poco riusciti.

Nel disco si sperimenta, ma in campi già sperimentati, o con poca efficacia e si strizza l’occhio a orizzonti pop, senza, però, riuscire nella godibililtà nell’ascolto particolare e completo. La classe c’è tutta ed è innegabile che Simenon sia un mago dell’elettronica, ma probabilmente le sue capacita e il suo curriculum in materia disco non superano la prova del tempo, come il producer invece sembra orgogliosamente dichiarare nel titolo del suo album. A questo punto, molto molto meglio riesce qualsiasi lavoro dei Depeche Mode da “Ultra” in poi.

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