Stoned Hand Of Doom Festival (Init, Roma) (17 maggio 2008)

Puoi prendere i Black Sabbath e rivoltarli come un calzino, puoi seppellirli sotto tonnellate di watt o ridurli all’osso, puoi accelerarli all’eccesso o rallentarli sino all’immobilità, puoi trasfigurarli irrispettosamente o riproporli con riverenza e classe (cosa, quest’ultima, che i Witchcraft sanno fare al meglio). Tanto poi il risultato rimane sempre lo stesso: i Black Sabbath, come pochi altri paladini rock, rappresentano una vera e propria categoria del pensiero. Ma andiamo con ordine.

Stoned Hand Of Doom è la rassegna romana dedicata a stoner e doom, due generi accostati incestuosamente e che convivono con diffidenza reciproca. Chi vi scrive non ha potuto assistere alla prima giornata e a gran parte della seconda. Per un soffio si è potuto gustare il termine della performance dei bergamaschi El Thule, astro nascente della scena heavy psych italiana. Il power trio mena con rabbia sul palco, accentuando le affinità col punk dei padri Kyuss e riproponendole con un suono roccioso e ipersaturo, senza particolare originalità. Giocoforza, verrebbe da dire, dato che lo stoner, ammesso e non concesso che esista e che sia un genere a sé, è già nato fortemente codificato, spesso sclerotizzato, e soprattutto, salvo il caso di musicisti particolarmente ispirati e coraggiosi, non offre molti sbocchi creativi. Gli El Thule comunque francamente se ne infischiano e i risultati danno loro ragione, suonano cazzuti e compatti e lasciano ben sperare nei possibili sviluppi della loro trama sonora.

Con i Foreshadowing vengono alla luce tutte le contraddizioni di accostamenti del genere. Non suoni come una critica ad un festival decisamente ben curato e organizzato che ha offerto la possibilità di ascoltare tanta buona musica. È solo che realmente sfugge cosa abbia in comune una band doom metal figlia di Paradise Lost, Anathema, Amorphis e My Dying Bride con quanto l’ha immediatamente preceduta e seguita. Detto questo, il sestetto non ha risparmiato al pubblico la propria visione musicale catacombale e millenarista, tra tempi immobili, riff metallici discendenti e tastiere inquietanti. Il ricambio tra il pubblico è apparso evidente, accentuando la presenza degli oltranzisti del genere, tra cui gli eroi locali Doomraiser, headliner della serata precedente. Personalmente i momenti migliori sono sembrati quelli in cui una qualche melodia alla Depeche Mode ha guidato l’impianto sonoro, oppure un’occasionale accelerazione quasi trash, oppure, ovviamente, la cover finale di “Russians” di Sting, che scommetto non sfigurerebbe nemmeno resa da un’orchestrina mariachi. Ma che il sottoscritto abbia apprezzato maggiormente queste variazioni meno ortodosse la dice lunga sulla sua predisposizione al genere, per cui traetene le giuste conseguenze. Il gruppo, da par suo, ha suonato con buon impatto, convinzione e qualità che i fan del settore credo apprezzino.

Nuovo ricambio di pubblico e atmosfere con l’ingresso dei peruviani La Ira De Dios, nei quali riponevo la speranza di poter trovare almeno in parte l’abilità degli sciamani argentini Los Natas nel plasmare la materia inacidita della psichedelia in un continuo accumulare e rilasciare tensione, con scenari naturali e rituali primordiali evocati da sonorità colorate e rifrangenti. I peruviani, pur fondando il suono sulle stesse basi (Kyuss, Blue Cheer, Hawkwind), hanno invece instradato lo show nella direzione di un rock’n’roll duro, polveroso e space-oriented, maggiormente potente e meno figurativo. Gran bel tiro, ritmica indiavolata e trascinante, basso caterpillar e chitarra blues acida, cantato ruvido e ispanico. Come per gli El Thule, quel che manca è una personalità maggiore in fase compositiva. Nelle jam dilatate e negli assalti serrati i La Ira De Dios si guadagnano comunque un posto di riguardo nel settore a livello internazionale. Anche perché, chiudendo gli occhi e lasciandosi andare, l’ammaliamento psichedelico è garantito dalla dimestichezza e competenza del trio.

La pietanza principale della serata viene servita con una base registrata di musiche medievaleggianti (?) come antipasto, lasciando temere implicazioni prog indigeste. Ma dal primo brano quei rimastoni dei Witchcraft, talismani al collo, lunghe chiome e abiti tanto anni ’60 quanto anni ‘400, hanno messo in chiaro i motivi per cui sono una delle realtà maggiormente apprezzate sulla scena. Zero innovazione, nemmeno lontanamente ricercata, solo (?) l’esibizione di musicisti con la stoffa dei rocker di razza e col pedigree giusto: brani epici (quasi) quanto “The Prophet’s Song” dei Queen, viscerali (quasi) quanto “Hymn 43” dei Jethro Tull, commoventi (quasi) quanto “Fire And Water” dei Free. L’immaginario è lo stesso sprigionato dalla splendida “Embryo” dei padrini di Birmingham. Il sound, ruggente ed eccitante, ha lo stesso profumo che deve avere il legno di una chiesa medievale nella campagna scandinava. Performance incredibilmente rocciosa e quadrata, tanto che per giustificarla il solito saggio Francesco ha tirato in ballo l’efficienza dei servizi e dello stato sociale svedese. E quando dalla maglia sonora riversata dalla loro strumentazione analogica affiora qualche ricamo inebriante o qualche articolazione progressiva il giusto, l’effetto è seducente come lo sguardo etereo di una dama da romanzo cavalleresco.

Che classe! Sotto il palco, poi, stoner kids con le pupille dilatate e metalheads apocalittici riuniti mettono in chiaro definitivamente che siamo tutti figli di Dio (per chi ci crede) e dei Black Sabbath.