Cesare Basile dalla parte di Caino: l’intervista

Il nuovo album “Storia di Caino”. La Catania vitale degli anni ’80 scomparsa sotto i colpi dell’omologazione. Una Milano assalita da un’umanità ipocrita. L’eredità di Fabrizio De Andrè. Il legame con la terra. La collaborazione con Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy. Secco e tagliente, così è Cesare Basile.

Fin dal titolo, “Storie di Caino” fa capire che ancora una volta starai ad osservare il mondo dal lato Sbagliato della strada: ti è mai passato per la testa di provare a passare dalla parte del vincente, non foss’altro per curiosità autoriale?

Faccio fatica a identificarmi coi vincenti, anche perché i vincenti di cui parliamo non combattono mai lealmente,sono ruffiani, traffichini,imbonitori e criminali con l’abito buono, non sono parte di uno scontro, sono mandanti.


Nei nuovi pezzi l’elettricità sembrerebbe giocare un ruolo meno aggressivo rispetto a quello che aveva in “Hellequin Song”: meno rock e più delta blues… da cosa dipende l’aspetto sonoro delle tue canzoni, ci sono dei criteri in base ai quali lo decidi?

Credo che siano le canzoni stesse a suggerirti gli abiti che indosseranno, poi giocano molto i suggerimenti del periodo, le cose o gli umori che ti stanno influenzando in quel dato momento e, sicuramente, il dialogo con chi produce il disco, la voglia di mettere in discussione l’ idea da cui sei partito.

Chi come me vive all’altro capo dello stivale conserva un’immagine di Catania che forse è un po’ legata agli anni Ottanta: un circuito indipendente attivo, i concerti dei R.E.M. e degli Smiths, i primi Denovo… una città rock, insomma, che fa(ceva) felice eccezione fra i capoluoghi del Meridione. Le cose stanno ancora così?

C’erano cose molto più interessanti dei Denovo detto sinceramente, ma, soprattutto, c’era una voglia di farsi la propria musica e inventarsi degli spazi che la cultura e la politica ufficiale non prevedevano, adesso trovo Catania abbastanza triste e omologata in tal senso, anche se ci sono molti ragazzi che stanno cercando di riscrivere un percorso.


Di contro pure tu, in qualità di “terrone”, canti di un nord manageriale, ipocrita, fatto di alti prelati e avvocati griffati, costantemente riuniti attorno al tavolo degli aperitivi. “Il Fiato Corto di Milano” ridipinge il quadro fortemente ottantiano della solita Milano da Bere e la mia domanda si ripone: le cose, a tuo avviso, stanno ancora così?

Non ho cantato una Milano anni ottanta, ho cantato la stanchezza di una città condivisa da un suo cittadino terrone, entrambi attorniati da squallore e lustrini ed entrambi, la città e il terrone, assaliti da un’umanità ipocrita.


Chiarita la matrice roots, il disco finisce e culmina su un canto tradizionale “Maria degli Addolorati”. Esiste una specie di “fil rouge delle radici”, un costante legame con la Terra e con le Terre nelle musiche che ti affascinano?

Decisamente le musiche che affondano nella terra sono le matrici delle mie canzoni. Credo che la musica popolare, fatta di strati sovrapposti e influenze disparate, sia la mia migliore fonte di ispirazione, l’intrico delle radici più che un filo rosso..

Nel più classico degli effetti post mortem, più gli anni passano e più cresce il numero di improbabili parenti e dei sedicenti conoscenti che accampano pretese di discendenza e si contendono a morsi la inflazionata “eredità artistica” di Fabrizio De Andrè. Da parte tua, hai qualcosa da recriminare?

Come sgomitare per un posto da primario… non fa per me. Fabrizio De Andrè resta un punto di riferimento, un’esperienza di libertà e coerenza artistica, oltre che umana, dalla quale abbiamo tutti da imparare. “non maleditemi non serve a niente tanto all’inferno ci sarò già” diceva così De Andrè nel suo “testamento” se non sbaglio…


Ci hai già abituati a grosse ospitate internazionali nei tuoi tour e nei tuoi dischi: ci racconti come sei arrivato a conoscere Robert Fisher dei Willard Grant Conspiracy e a fargli cantare la tua “What Else Have I to Spur Me into Love?”

Sono stato in tour con Robert per circa quindici giorni, ci siamo scoperti simili su tante cose e da lì a scrivere un brano insieme la corsa è stata breve.


Chiudo con una piccola curiosità personale: più riascolto “Fratello Gentile” da “Hellequin Song” e più mi pare una metafora perfetta per raccontare la parabola dell’ Enzo Biagi imbavagliato o altre storie di censura giornalistica, così frequenti non solo da noi. E’ un tuo riferimento intenzionale o semplicemente una mia pippa mentale?

Il Fratello Gentile di cui parlo è molto più anonimo, è un uomo fra tanti che non avrà mai la possibilità di un pubblico, è uno che guarda la vita e la smaschera, che si sacrifica affinché la rappresentazione della farsa venga svelata.