LIARS, Liars (Mute, 2007)

Nessuno ha mai messo in discussione che i Liars siano completamente fuori di testa. Né è legittimo porsi delle aspettative da una band che ha sempre camminato compiaciuta sull’orlo dell’irrazionalità più caotica e dissacrante, come quegli acrobati da circo che sfidano la gravità in equilibrio su una corda, con tutti i rischi del caso. Tuttavia era difficile pensare a un disco simile, dopo la progressiva virata dall’esuberante post-punk dalle venature electro-funk di “They Threw Us All In A Trench And Stuck A Monument On Top” passando per i baccanali tra disco e industrial di quel “They Were Wrong So We Drowned” da Pop Group del Terzo Millennio, l’ideale transizione per l’estrema “tribalizzazione” delle ritmiche nell’ostico e claustrofobico capolavoro berlinese, “Drum’s Not Dead”.

Basta ascoltare i primi due brani per rendersi conto della svolta del quarto LP dell’eccentrico terzetto newyorkese. “Plaster Casts Of Everything”, pur arrangiata e strutturata con la loro peculiare spigolosità, sembrerebbe scritta dai Queens Of The Stone Age, “Houseclouds” da Beck con quel beat sculettante inseguito da minimali incursioni elettroniche. Svolta cantautorale, come sarcasticamente aveva annunciato quel licantropo dalle sembianze umane di Angus Andrew? A dirla tutta, ascoltando il lisergico trip-hop di “Sailing To Byzantium” o l’eterea ballad conclusiva alla Radiohead – “Protection” – a base di organo e orchestrazione, qualche dubbio viene sul serio, soprattutto sentendolo cantare. Canto, nel vero senso termine, una dote occultata da quel timbro monocorde che almeno nei primi due album era sempre pronto a sfociare in gemiti, sospiri e latrati. Ciò che sorprende non è tanto quest’avvicinamento alla forma canzone in parte palesato nel precedente episodio della saga-Liars, quanto l’abbandono di quell’omogeneità tipica dei concept-album nel saper creare atmosfere uniformi e non monotone dalla prima all’ultima traccia.

Se “Cycle Time” segue le tracce “rock” della poderosa apertura rielaborandole in quei canoni di nevrotica instabilità funk, “Clear Island” presenta delle scorie acide electro-rock molto Primal Scream, “Freak Out” ha i tratti di un omaggio chissà quanto consapevole allo straniante shoegaze dei Jesus And Mary Chain. Nessun plagio e nessuna scopiazzatura, escluso forse quest’ultimo “omaggio”, sia ben chiaro, perché il tocco dei Liars si sente eccome. Nelle cupe intuizioni di Aaron Hemphill diviso tra synth e chitarre quanto nelle inimitabili trame ritmiche dell’indemoniato Julian Gross. Se i bruschi cambi di atmosfera rappresentano la Novità, i caotici baccanali alla Liars sono quello che ci si aspetta da loro, e loro, non deludono le attese. Dai quattro minuti di delirio post-industriale da moderni Throbbing Gristle di “Leather Prowler” a “Pure Unevil” che ribadisce la fama di figli illegittimi di maestri della dissonanza no-wave quali i This Heat e il leggendario Pop Group. Spiccano infine due delle tracce che meglio avrebbero figurato nell’inquietante magnetismo di “Drum’s Not Dead”, lo spettrale sabba di “The Dumb In The Rain” e la stridente “What Would They Know”, un ponte lungo quarant’anni tra la sotterranea New York dei Velvet Underground e la contraddittoria New York post-11 settembre. Ideali colonne sonore e inconsapevoli esemplari dell’instabilità di questo inizio millennio, i Liars continuano a dare speranze alla scena musicale internazionale. Questo “Liars”, al di là dei suoi limiti, è una piacevole conferma oltre che la prova di maturità che ci si aspettava dopo sei anni di eccessi e provocazioni. Per quelle resta sempre il palco. Per fortuna.

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