NICK CAVE AND THE BAD SEEDS, No More Shall We Part (Mute, 2001)

Affrontare un disco di Nick Cave è sempre una faccenda piuttosto complessa perché nei suoi lavori ci sono sempre una profondità e un’intensità davvero rare nel mondo del rock. E questo a maggior ragione per questa ultima fatica che trabocca di tormento religioso come mai prima. In un certo senso si riparte da dove ci si era lasciati, ossia dalle note di piano su cui era costruito “The Boatman’s Call” del 1997, da una scrittura classica della canzone, seguendo gli esempi dei maestri Dylan e Cohen, lontano dall’irruenza degli esordi. E proprio con le note lente di piano si apre “As I Sit Sadly by Her Side”, malinconica e torturata, dove Cave canta “E Dio non si cura della tua benevolenza”, ed è solo l’inizio. Perché questo è un disco sulla fede, un sentimento tutto fuorché consolatorio. Al contrario è una fede aspra, a volte dolorosa per un Dio non sempre buono, come accade ai personaggi dei racconti di Flannery O’Connor. E infatti nella sinistra “Oh My Lord” che sfocia nel coro inquietante dei Bad Seeds, Cave canta “Stai attento alle preghiere che invii /Prega molto ma prega con attenzione/ Perché le lacrime che piangi ora/ Sono solo le tue preghiere esaudite”. “No More Shall We Part”, brilla soprattutto negli episodi più tormentati e scuri, la ballata desolata che dà il titolo all’album, che recita “Signore, stammi vicino/ Non mi abbandonare/ Non sarò mai libero/ Se non sono libero adesso”, il crescendo nervoso di “Fifteen Feet of Pure White Snow”. E poi la lunga e maestosa “Hallelujah”, aperta dal bellissimo e suggestivo violino di Warren Ellis dei Dirty Three, avanza con tono grave e sfocia nel coro finale di Kate e Anne McGarrigle, che cantano “Alleluia/ Le lacrime sgorgano di nuovo dagli occhi/ Alleluia/ Mi servono venti grossi secchi per raccoglierle tutte”.
Succede anche che Nick Cave scivoli in eleganti esercizi di stile, “Love Letter” e “We Came Along This Road”, che non danno granché. Ma dimostra di essere ritornato per lasciare un segno profondo quando si arriva al finale lento e spoglio, la dolce “Gates to the Garden”, e “Darker with the Day”, che avanza malinconica e chiude il disco raccontando ancora una volta l’inquietudine della fede, “Dentro mi misi seduto, a cercare la presenza di Dio”, “Vado e vengo pieno di desiderio per qualcosa che non conosco” e ancora “E io cerco, dentro e fuori, sopra, intorno, sotto”.

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