BRIGHT EYES, Cassadaga (Saddle Creek / Self, 2007)

Conor Oberst è ormai un maturo ragazzotto di ventisette anni. Sembra strano da pensare e da scrivere, ma anche lui invecchia. Dopo essere diventato il paladino dell’alt-folk un po’ emo è ora di cambiare pagina e cercare di far capire al mondo che si ha voglia di mettersi in discussione con modelli più “alti”. Ed eccoci quindi a “Cassadaga”, nuovo capitolo a nome Bright Eyes dopo il doppio esperimento “I’m Wide Awake It’s Morning” + “Digital Ash In A Digital Urn” (visto da molti fan della prima ora come l’inizio della fine di un’altrimenti brillante carriera artistica) e il live “Motion Sickness”. Lo ascolti e quasi non ci credi. Conor è effettivamente cresciuto e l’aver frequentato i palchi americani in compagnia di gente come John Fogerty, R.E.M., Neil Young e – soprattutto – Bruce Springsteen lo ha trasformato in una sorta di nuovo “cantautore” che, se da un lato mantiene tutte le peculiarità che l’hanno reso unico, dall’altro si accosta ad un suono più levigato e ambizioso. Siamo dalle parti di una specie di american cosmic music, proprio quella che suonava Gram Parsons negli anni ’70 e riproposta con riverito omaggio dall’ultimo Ryan Adams.

Ma non si straccino le vesti, i detrattori. Quello che conta sono le canzoni: la scrittura, i testi e gli arrangiamenti. Ed è qui che abbiamo la conferma della natura superiore dei Bright Eyes. L’ambizione trova un giusto sbocco nei musicisti, capaci di disegnare trame all’apparenza “antiche”, ma in realtà mosse da una forza propulsiva interiore che ben si unisce ai testi di Conor (sentire “Soul Singer In A Session Band”, “I Must Belong Somewhere”). Riflessioni universali che partono dal personale per approdare alla politica, all’amore e alle cose di tutti i giorni. Non più con la voce sguaiata e arrabbiata di un emo-kid che trova da ridire con tutti, ma il canto soffice e meditabondo di un ragazzo che sta per diventare uomo (argh! questo toccherà a tutti noi) e sta pensando alla strada da prendere.

Apprezzabile tentativo di rendere omaggio ai mostri sacri di certa musica americana – non solo Gram Parsons, sia chiaro… ovvio che il già citato Springsteen ha contribuito di molto – e di affrontare senza prese in giro la sua maturità. In un mondo di gente che cerca di essere a tutti i costi lo stereotipo di sé stessa, è bello trovare – di tanto in tanto – qualcuno che se ne frega e cerca di fare musica nel migliore dei modi possibili.

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