MARBLE VALLEY, Wild Yams (Indikator Rekords, 2006)

Ebbene sì, chi scrive i Pavement non se li è mai filati. Ora potete anche sputarmi in faccia o via mail, ma il risultato resta lo stesso. De gustibus. Non si sa mai però, i gusti cambiano, magari fra vent’anni a voi faranno pietà e a me piaceranno. Intanto una cosa è certa: il sottoscritto può valutare la nuova prova del gruppo di Steve West, ex batterista della band di Stockton, senza esserne influenzato in un modo o in un altro. Anzi, chi possiede anche il più lurido bootleg del gruppo capitanato da Malkmus non potrà che stufarsi e notare una certa ridondanza e ripetitività in questo terzo album dei Marble Valley rispetto a tutto il lo-fi che si è sciroppato.

Personalmente, invece, ci trovo una sensibilità pop ubriaca che dice ancora qualcosa. Certo, l’andatura barcollante è in certi punti troppo cercata per apparire totalmente spontanea, però “Wild Yams” ha diversi pezzi meritevoli (la sbarazzina “Eric The Viking”, il ritornello alla Grandaddy di “Fag & Ah Light”, il low-blues sotterraneo “I Could Drink An Ocean”), con in più la mia, personalissima canzone del 2006. Eccola, la canzone dell’anno non la si cerca mai ma lei arriva più puntuale di un due di picche: “Computer Man” è un gioiellino a bassa fedeltà di perfezione obliqua, di pop sghembo, di chitarrine occidentali e tastierine splendidamente giocattoline. Un pezzo che mi ha ricordato i territori che attraversavano i Kat Onoma, gruppo francese che nel lontano ’92 dedicò un album a “Billy The Kid”. Mi portai a casa la cassettina dalla gita di quinta a Parigi, e della cosa non dovrebbe fregarvene nulla, perciò ve la racconto. La custodia di plastica era talmente bella da essere diventata – nel mio limitatissimo immaginario degli artwork per cassetta – un vero e proprio oggetto di culto: vi era spruzzata una vernice gialla che formava la scritta “Kat Onoma” con l’effetto macchie sparse e la vera copertina, quella di carta sotto, che emergeva a tratti da tutto quel giallo. Mai più vista una cosa simile.
Ma, oltre che per annoiarvi, perché lo racconto? Perché, a pensarci bene – o a voler trovare forzatamente una similitudine – i Marble Valley sono come quella vernice: macchie sparse su spartiti con le cinque righe traballanti.

Steve West è un onesto imbianchino, questo album ce lo riascolteremo volentieri ma, in conclusione, ci rimarrà un dubbio: ci ha rilasciato fattura o ci ha fatto il lavoro in nero riciclando qualche clichè indie?

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