PRIMAL SCREAM, Riot City Blues (Columbia, 2006)

Il ragazzo pensava di doversi vestire tutti i giorni come se dovesse andare ad un rave. Era stufo di ballare fino all’alba sui ritmi alchemici di una acid-house sparata ai 300 mph nemmeno si trattasse di techno tedesca. E pensare che qualche anno prima quel mondo gli sembrava una rivelazione. Aveva passato gli anni migliori della sua vita a leggere fantastici resoconti sulla Factory e sull’Hacienda e Madchester gli sembrava il posto più fico dell’universo. Erano gli anni in cui tutti saremmo partiti zaino in spalla e poche lire cambiate in pochissime sterline per raggiungere e calpestare i sacri lidi dei santini di gioventù. Bobby Charlton, George Best, Morrissey, Ian Curtis. Madchester, come non mai. Tutta la notte al ritmo forsennato di quegli oscuri figuri dei New Order calati in ecstasy in una “Blue Monday” che frigge il cervello. Sembrava un rave eterno e da qualche parte qualcuno aveva trovato il coraggio di mandare tutto all’aria. Era un ragazzo scozzese, magro, con una maglietta degli Stooges. Me lo ricordo perché mi mandava sempre affanculo nel negozio di dischi del quartiere vicino all’Old Trafford. Io compravo vinili Motown, lui faceva il duro con il suo amico pelato di nome Alan. Qualcuno mi ha detto che aveva un’etichetta discografica, quell’Alan. Quel ragazzo, invece, era cresciuto con il cervello nel tostapane ed aveva passato un periodo di pieno delirio sulle rive dell’Irwell. Viveva tra Londra, Madchester ed Edimburgo e dio solo sa dove trovava i soldi per mantenersi e viaggiare. Vivevamo in un enorme ascensore temporale e gli Stone Roses sembravano la cosa più fica del mondo. Lui però, ad un certo punto, dopo aver fatto indigestione di rave, scopate, droghe chimiche e accelerazioni più in alto del sole, aveva deciso di lasciarsi tutto dietro. E nessuno gli aveva detto che era arrivato il 2006.

Era il 2006 ed era stato visitato in sogno da tre fantasmi. C’era un vecchio biondo con un passato da diva rock’n’roll di una grande rock-band inglese. C’era uno sciamano coi pantaloni di pelle e la barba da poeta maledetto. C’era un cowboy solitario con la pelle rovinata dal rogo del suo cadavere. Gli avevano indicato una via da seguire. Una via che lo avrebbe allontanato – per sempre? – dai sicuri lidi di quel successo electro-figlio-di-puttana in cui lui stronzeggiava ovunque in un eterna festa lunga come una vita intera vissuta sul beat.

Molti l’hanno guardato cambiare radicalmente. Molti lo hanno insultato e se ne sono andati. Voglio restarmene dove sono, gli dicevano, se vuoi suicidarti, fallo pure senza di me. Ma lui aveva voglia di tornare in certi luoghi dell’anima che aveva abbandonato da qualche parte nel suo mondo immaginario. Aveva pure perso l’amico di sempre, quello che aveva costruito muri di chitarra in un disco viola e senza amore mentre cerca la sua cartolina di San Valentino sanguinante. Eppure la chitarra gli piaceva, a questo ragazzo. Gli piaceva così tanto che non aspettava altro che un attimo di pausa – tra un party e l’altro – per imbracciarla, pestare sul fuzz e scaricare una manica di gagliardi riff che avrebbero fatto la felicità del biondo fantasma di prima. Gli piaceva così tanto da passare poi a scrivere di puttane che fanno girare il mondo a ritmo di country, per la felicità del fantasma arso morto nel deserto di Joshua Tree. E ci aveva preso gusto. Così tanto da non pensare ad altro e da scrivere tutti i giorni e tutte le notti. Non dormiva più, strafatto di anfetamine. Scriveva, scriveva, scriveva. E preso dal raptus drogo-creativo si lasciava andare alle rarefatte influenze sciamaniche del poeta alcolizzato, allungano e dilatando fino all’ossessione certe idee.

Era una nuova alba. Una nuova stella lucente nel mattino sfolgorante. Il rave era finito e il ragazzo finalmente poteva vedere, dopo tanti – troppi – anni, la luce del sole. Di nuovo sè stesso. Diverso ma uguale. Più forte di prima.

Quel ragazzo si chiamava Bobby Gillespie.

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