UZEDA, Stella (Touch and Go / Wide, 2006)

Magma, calore ribollente e pericoloso: è un’immagine di banalità terribile, ma è quella che meglio si adatta a raccontare i catanesi Uzeda; basta lo stridore della chitarra che apre “Wailing”, mentre il basso inizia a rimbalzare nel ventre, per dare il via a una colata di abrasioni libere, senza forma apparente, oscure immagini di cantastorie deviati.

Eppure, avere questo “Stella” tra le mani è una gioia intensa: gli otto anni che lo separano da “Different section wires” hanno visto la parola “fine” scritta a matita sul foglio degli Uzeda, e invece la band è riapparsa al massimo dello splendore. Il tempo non sembra passato, nemmeno per un secondo, ed è questo il maggior pregio – e il peggior limite – di “Stella”; li hanno definiti a lungo gli Shellac italiani, e per gli Uzeda il suono da seguire resta quello: un fluire liberato da ogni struttura, dove la chitarra ha il compito di stridere più che di indicare melodie, il basso non si limita a riempire i vuoti ma satura in maniera ansiosa ogni spazio, la batteria percuote lenta e furiosa e la voce, quella voce da bambina angosciata, vaga nel caos, tratteggiando immagini da sogno impazzito.

Serve meno di mezz’ora, agli Uzeda, per restituirci un suono che abbiamo amato alla follia: l’impennarsi pauroso del lamento di “Wailing”, il percuotere furibondo di “What I meant when I called your name”, l’assottigliarsi fino al limite di “Time below zero” e il continuo soffocare la melodia di “Steam, rain and other stuff” sono solo alcuni dei momenti alti di un disco prezioso, grezzo, fatto di nulla e profondamente urticante, proprio come le meduse che popolano lo splendido artwork. Resta solo un mistero: come è possibile che, nonostante le Peel Sessions, i dischi marchiati Touch and Go (che ha scelto proprio l’uscita di “Stella” per festeggiare il proprio venticinquesimo anniversario) e le produzioni di Steve Albini, si siano accorti in pochi che gli Uzeda erano – e restano – il miglior gruppo italiano?

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