JULIAN COPE, Dark Orgasm (Head Heritage, 2005)

Dopo il fortunato ritorno alla distribuzione convenzionale di “Citizen Cain’d” (grazie agli sforzi della Lain e della Goodfellas), Julian Cope torna alla pubblicazione autartica del suo mirabolante genio creativo fatto in canzone. Internet e file sharing sono quindi tornate le armi fondamentali per poter mettere le mani sui manufatti artistici di Sua Maestà l’Arcidruido, ma i suoi fan lo sanno: bisogna sempre aspettarsi qualcosa, da Julian Cope.

I punti di contatto tra “Dark Orgasm” e il suo predecessore sono essenzialmente due: entrambi sono dischi di puro rock’n’roll ed entrambi sono doppi. Buffo considerare però come i suoi lavori possano stare – per durata – all’interno di un singolo supporto, che sia l’ennesimo atto d’amore vagamente nostalgico verso il vinile dove se un disco durava più di quaranta minuti bisognava disporre di un secondo padellone? Non ci è dato saperlo, anche se da uno che vive in una realtà parallela ferma al 1975 non è una sorpresa un eventuale attacco di saudade temporale. Costume a parte, le canzoni di “Dark Orgasm” rappresentano il concetto più sublime della prescindibilità in quanto raccolta di rifforama sparso, slogan caciaroni (“Nothing To Lose Except My Mind”), organetti e mellotron che fanno tanto kraut-rock ma anche tanto psichedelia (“I’ve Found A New Way To Love Her”) e chitarre acide che in più di un’occasione sfiorano il metal dei Brian Donor (merito del supremo camaleonte Doggen: dal liquame sonoro degli Spiritualized al coattume in 4/4 di Cope). Tutto tremendamente ordinario, tutto tremendamente straordinario. Schifosamente straordinario. Si vive in una realtà relativa e stiamo sempre parlando della persona che del rock’n’roll, ne apprezza principalmente i cliché. Quindi spazio ad una sarabanda di tamarrate – wah wah a profusione, assoli tremendamente ammiccanti a certo onanismo da sei corde – e un’atmosfera ieratica da nuovo-santone-del-rock che il Nostro va ormai delirando dai tempi in cui è uscito dalla testuggine di “Fried”. Ma lì era pop Barrettiano, qui rock’n’roll. Puro e semplice, come dimostrano i 21 minuti di “The Death & Resurrection Show”, perfetto punto d’incontro tra i Can e i Black Sabbath. Una cosa alla Julian Cope, insomma.

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