MATMOS, The Rose Has Teeth in the Mouth of a Beast (Matador, 2006)

Cosa unisce il concetto filosofico di Ludwig Wittgenstein, il dj di culto Larry Levan, il manifesto per l’eliminazione dei maschi di Valerie Solanas, il pornografo Boyd McDonald, il regista di “Pink Narcissus” James Bidgood, la scrittrice Patricia Highsmith, il leader dei Germs Darby Crash, il produttore musicale Joe Meek, il “Naked Lunch” di William S. Burroughs e l’imperatore Ludwig II di Baviera?

Apparentemente nulla, sono d’accordo con voi: eppure c’è qualcuno nel caldo afoso del 2006 che è stato capace di trovare un seppur contorto trait d’union tra tutti questi personaggi più o meno importanti e più o meno controversi. Che quei signori “qualcuno” rispondano ai nomi di Drew Daniel e M. C. Schmidt potrebbe in fin dei conti non essere una sorpresa: in pochi anni i Matmos sono infatti passati dal glitch in odore di musica concreta di “Matmos” allo studio teorico messo in pratica in “Quasi-Project”, dallo sposalizio tra freddezza elettronica e calore strumentale di “The West” alla glacialità chirurgica di “A Chance to Cut is a Chance to Cure” fino all’acutezza musicale e politica di “The Civil War”. Tutto questo senza dimenticare le miriadi di split, di collaborazioni, di ricerche improvvise e folli ecc.ecc.

I Matmos, a dirla tutta, non sono un gruppo normale, non perché siano superiori al panorama che li circonda ma semplicemente perché vivono e leggono la musica come qualcosa di completamente diverso rispetto al panorama che li circonda. Può far ridere scrivere e parlare di teoria musicale quando ci si approccia alla recensione di una band pubblicata da una label tutt’altro che nascosta agli occhi della massa, ma è così. La musica partorita dai Matmos si può anche ascoltare e basta, disconnettendo il cervello e lasciandosi andare alla ritmica e al flusso sonoro, come evidenzia con estrema nettezza “Public Sex for Boyd McDonald”, ma pensare alle composizioni del duo come qualcosa di adatto ai sottofondi di una festa danzante mi fa sinceramente accapponare la pelle.

Pochi, negli Stati Uniti come nel resto del mondo, portano avanti oggi come oggi un’idea di arte musicale che sia allo stesso tempo critica alla società. Senza i proclami di chi cerca di vestire i panni del capopopolo, ma con un’onestà intellettuale che lascia sbalorditi, anche se non sorpresi del tutto: l’ascolto di tutta l’opera dei Matmos permette di focalizzare con estrema precisione il senso che essi danno all’idea stessa di composizione musicale. Già la sola ricerca del suono, alla base di ogni combo che si rispetti, assume nel curriculum della band una serie di valori particolari: Daniel e Schmidt sono capaci di improvvisare strumenti creati in casa solo per la necessità di trovare il suono che inquadri con la determinata precisione il concetto che si vuole esprimere. È palese in “Germs Burn for Darby Crash” quando ciò che sentiamo altro non è se non il campionamento del rumore di una sigaretta accesa spinta contro la pelle di Daniel da Don Bolles, ex batterista della band losangelina, ed è in realtà evidente in ogni traccia dell’album. Si potrebbero tirare fuori i nomi di Adorno, di Wittgenstein, di Warhol, addirittura di Marx (Karl, non Groucho), e non ci sarebbe alcuna paura nel farlo. Perché i Matmos appaiono dannatamente consapevoli del progetto che stanno portando avanti, passo dopo passo.

Il loro sguardo seziona la società statunitense come il bisturi di “A Chance to Cut is a Chance to Cure” o lo scontro fratricida di “The Civil War”, passa al setaccio le incongruenze di un universo a parte che è patria della libertà e sua negazione, in un gioco di chiaroscuri che sarebbe troppo facile gettare via in blocco e che invece bisogna cercare di analizzare, per poter intervenire con maggiore efficacia. I Matmos non dimenticano mai il loro ruolo di artisti (non intrattenitori, neanche educatori, che sono due termini che ben poco si adattano alla descrizione dell’etica musicale del duo) e agiscono contro ogni corrente possibile in maniera mai consolatoria, ma bensì sempre tesa allo scontro. C’è un’aria di conflitto eterno che pervade “The Rose Has Teeth inA the Mouth of a Beast” e che è sintetizzata splendidamente dai primi minuti dell’ode a William S. Burroughs: il ragtime cadenzato e cullante dell’inizio viene interrotto da uno sparo, a cui fa seguito una sinfonia per macchine da scrivere, in un (doppio) riferimento che è fin troppo facile da scorgere. Non conciliano il sonno i Matmos, perché è il sonno delle menti il male da combattere, anche duramente se necessario.

A seguire, per chi ancora non ci avesse capito nulla, il testo di “Roses and Teeth for Ludwig Wittgenstein”:
“A new-born child has no teeth
A goose has no teeth.
A rose has no teeth
This last at any rate, one would like to say, is obviously true! It is even surer than that a goose has none. And yet it is none so clear. For where should a rose’s teeth have been? The goose has none in its jaw. And neither, of course, has it any in its wrings; but no one means that when he says it has no teeth. Why, suppose one were to say: the cow chews its food and then dungs the rose with it, so the rose has teeth in the mouth of a beast. This would not be absurd, because one has no notion in advance where to look for teeth in a rose.”

Null’altro da aggiungere, se non che tra i miei dischi dell’anno per ora il loro spazio l’hanno trovato. E stanno anche comodi…

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