RY COODER, Chávez Ravine (Nonesuch / Warner, 2005)

Ogni disco di Ry Cooder è un viaggio a sè. Inutile cercare una continuità, un tema ricorrente, un’uniformità musicale. Stiamo parlando di un uomo alla perenne ricerca di note nuove, di suggestioni rinnovate e di enorme passione per le forme strumentali più disparate, un uomo che in ogni progetto in cui ha messo mano è riuscito a costruire un vero e proprio “paesaggio sonoro”. Devono essere veramente pochi quelli a non conoscere le gesta del Nostro in quell’opera di ricerca folkloristica che era “Buena Vista Social Club” – esperimento di enorme successo grazie anche a Wim Wenders, autore del documentario di quel viaggio – lavoro che ha portato in auge alcune glorie dimenticate della canzone cubana come Ibrahim Ferrer, Omara Portuondo e Compay Segundo. Ma qui le coordinate sono diverse, ci spostiamo verso l’oceano Pacifico e, più precisamente, nella città degli angeli, dove Ry Cooder è nato e cresciuto. Qui si narra la storia di Chávez Ravine, quartiere povero alla periferia della grande metropoli popolato in gran parte da chicanos letteralmente raso al suolo negli anni ’50 per far spazio all’odierno stadio di baseball dei Dodgers.

Un viaggio in quindici canzoni, attraverso i bulli da periferia di “Three Cool Cats” e l’ufo delegato di avvertire i messicani dell’imminente distruzione – in barba ai sindacati e alla parità sociale – di “El Ufo Cayó”, dipingendo le coordinate di quel paradiso dei poveri (“Poor Man’s Shagri-La”) e la disincantata descrizione di un nuovo vagabondo che aveva la casa dove adesso c’è la terza base del diamante (“3rd Base, Dodger Stadium”), tanto per denunciare un progresso antropofago che non guarda in faccia niente e nessuno, quanto per far rivivere il fascino di questa comunità e donarle l’immaginaria immortalità grazie ad un’opera artistica che torna a farle pulsare il sangue nelle vene. Perché questo è quello che è “Chávez Ravine”, sangue in musica. Nonostante non ci sia durezza, non ci sia violenza e le chitarre arpeggino delicate mescolandosi a stili come il conjunto, il corrido e la rumba. Ma è nelle parole che si deve cercare il vero significato di queste suggestioni, così come va parimenti visto sfogliando le pagine del libro “Chávez Ravine, 1949” di Dean Normark – il primo a fotografare la contadina bellezza di questo barrio fuori dal mondo – e cercato laddove la memoria non esiste, profanata dal business del più americano degli sport.

Abbandonarsi alle immagini di questo disco non è facile, in quanto lavoro talvolta eccessivamente verboso e un po’ pesante, ma trovate le necessarie chiavi di lettura non potrà fare a meno di rapirvi e riportarvi in una città che, degli angeli, ha solo la simulacra evanescenza.

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