DEVENDRA BANHART, Cripple Crow (XL Recordings / Self, 2005)

C’eravamo un po’ tutti abituati male, forse; certo è che dopo i fasti dei primi tre lavori di Devendra Banhart (senza mettersi lì a contare EP, Split e collaborazioni a vario titolo) riprendersi dalla sbornia non è facile.

Cosa abbia spinto il più creativo tra i cantautori folk attuali a dare alle stampe in fretta e furia un nuovo, ulteriore tassello è un vero e proprio mistero. Perché ad ascoltare le tracce che compongono “Cripple Crow” sembra di trovarsi davanti al più classico dei materiali postumi, adatto semmai a un’operazione nostalgica a evidente scopo di lucro: per capirci meglio, (quasi) tutto ciò che è presente in quest’ultimo lavoro mantiene la struttura di quanto prodotto in precedenza, solo che la rilettura odierna è decisamente in chiave minore. Insomma, sono costretto a parlare di un Devendra di serie B, fratello minore – anzi, presumibilmente adottato – di quel ragazzino pestifero, sognatore e geniale che con “Rejoicing in the Hands” non solo ha marchiato a fuoco il ruolo del cantautorato nella sua accezione contemporanea ma anche e soprattutto si è erto a capofila di quel movimento ondivago e apolide che è andato a ripescare le proprie radici nel folk pre-war.

E proprio dalla forma standard del folk Devendra si sta man mano allontanando, attratto da un lato dalla jam session fricchettona in odore di psichedelia e dall’altro da sonorità meno campestri e più solari, quasi a voler ribadire ulteriormente la sua non appartenenza stretta al tessuto sociale statunitense (le canzoni in spagnolo, sì, ma anche la copertina dove compaiono nativi americani in posa beatlesiana o meglio ancora, à la Incredible String Band). Un cittadino del mondo, si sarebbe detto una trentina d’anni fa.

Compagni di strada di questo profeta dinoccolato sono ancora i Vetiver, gli amici di sempre, capaci di dare corpo e carne alle intuizioni gentili eppur schizofreniche di Banhart. Intuizioni che l’autore poco più che ventenne dovrebbe imparare a centellinare; anche qui, nel lavoro meno luccicante, si fa l’incontro con piccole perle colme di grazia e ricche di quella peculiarità strabiliante che le vede capaci di dipingere acquarelli emozionanti, tramonti colmi di una pace mistica che è il punto d’incontro perfetto tra lo zen e l’animismo tribale. Eppure queste estasi momentanee perdono la loro efficacia disperse come sono in un’orgia di brani di cui nessuno, ne sono certo, sentiva la mancanza.

Ventidue brani sono troppi, soprattutto se si considera che appena un anno fa tra “Rejoicing in the Hands” e “Niño Rojo” ne erano stati partoriti già una quarantina. Devendra ha scelto anche stavolta di dare tutto se stesso al proprio uditorio e probabilmente ci sarebbe da essergli grato per questa palese dimostrazione di onestà intellettuale. Ma poi parte il cd e dopo quattro canzoni stai lì assuefatto e in procinto di annoiarti, sconfitto dalla prevedibilità del risultato.
E allora hasta la vista, Devendra, e alla prossima…

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