BIG STAR, In Space (Rykodisc / Ird, 2005)

Se si cerca una perfetta linearità tra il jangle-pop dei Byrds, le melodie beatlesiane, l’irruenza giovanile e quella capacità melodica che scatura in canzoni indimenticabili, allora non si può fare a meno dei Big Star. Gli americani sono stati tra i più importanti – se non i più importanti in assoluto, ma questo è un giudizio parziale – gruppi pop della storia, il solito affare per pochi, culto mai troppo nascosto dagli appassionati dell’underground e alfieri di un genere tanto definito quanto sottovalutato come il power-pop.

Prima di parlare di “In Space” è però necessaria un po’ di storia: Alex Chilton ha alle spalle una carriera soul nei Box Tops, mentre Chris Bell è un nome più o meno noto nell’ambiente pop post-byrdisano (un suo brano è incluso in una serie di compilation sulle origini del power-pop edite dalla Rhyno). Formano i Big Star nel 1971 e l’anno successivo danno alle stampe il primo, bellissimo, disco: “#1 record”, profluvio di melodie, emozioni e capolavori da tre minuti capaci di dare un senso alla vita (mai sentita “Thirteen”?). Un po’ di casini interni al gruppo determinano l’abbandono di Bell prima della pubblicazione di “Radio City” (1974), disco molto più influenzato dal soul – prima passione di Chilton – con una indimenticabile “September Girl”. L’anno dopo poi, il gruppo si scioglie e ci vogliono tre anni e la morte di Chris Bell – incidente automobilistico – per la pubblicazione di “Third/Sister Lovers” (1978), disco da molti considerato come il vero capolavoro di Chilton. Il quale, nel ’93, rispolvera la gloriosa sigla – diventata nel frattempo oggetto di culto di appassionati ed artisti tra cui Elliott Smith e gli Okkervil River – recluta Ken Stringfellow e Jon Auer dei Posies (grandi fan) e pubblica un live.

Seguono poi altri dodici anni di silenzio prima di questo nuovo capitolo, “In Space”. Molte cose sono cambiate. Chilton non è più un soul-singer sconosciuto ma un vero e proprio idolo. L’influenza della sua musica ha attraversato gli anni ’80 e gli anni ’90 creando proseliti (R.E.M., Teenage Fanclub oltre ai già citati Elliott Smith e Posies e poi un paio di migliaia di altri artisti) e dibattiti sull’effettiva eventualità di un nuovo disco. Siamo quindi arrivati ad oggi, con “In Space” nei negozi e i riflettori della critica puntati sul white kid del Tennessee. Mettiamo subito in chiaro quello che dovrebbe essere lapalissiano: non è come i primi dischi. Non poteva esserlo. Ma questo non è un problema, perché nonostante certe cadute di tono – inevitabili, come tutta la carriera dei Nostri, chi si ricorda “India Song”? – e certa faziosità critica da parte dei nuovi evangelisti della buona musica (una di quelle cose da farti riconsiderare l’ateismo), “In Space” rappresenta il miglior Chilton che oggi potevamo avere.

Dimentichiamoci di “A Whole New Thing”, rockettino senza mordente; “Do You Wanna Make It”, filastrocca anni ’50 un po’ noiosa e l’inascoltabile pastrocchio classicista di “Aria Largo”. Il resto è Big Star al 100%. L’attacco di “Dony” fa rizzare la pelle dall’emozione, così come “Lady Sweet” fa gridare al miracolo per la sua bellezza. Ma c’è anche una “Turn My Back Into The Sun” cantanta da Stringfellow che ricorda i Beach Boys in maniera quantomeno straordinaria e la sublimazione pop di “Frebruary’s Quiet”, doppia voce Chilton-Auer cui sembra semplicemente impossibile resistere. Tutto questo per dirvi di non credere a chi vi dice che si tratta di un brutto disco fatto di canzoni vuote o semplicemente inutili. Conosciamo Chilton, non è tipo da prenderci in giro. Forse trent’anni fa avrebbe avuto più cose da dire al mondo. Ma anche adesso, i Big Star, sono una di quelle voci che non ci stancheremo mai di sentire.

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