BACHI DA PIETRA, Tornare nella terra (Wallace Records / Audioglobe, 2005)

Quanto un genere musicale può veder straziate le proprie corde interiori prima di perdere le direttrici consone alla propria natura? Quanto un universo sonoro può veder le proprie giganti rosse trasformarsi gradualmente in nane bianche e andare alla deriva verso buchi neri in cui deflagrare nel colore, come l’astronauta solingo di Kubrick, prima che ci sia bisogno di un nuovo Big Bang?

Sono interrogativi apparentemente privi di qualsivoglia logica, me ne rendo conto, ma che possono acquistare una dignità se riallacciati alle sinapsi che si susseguono dopo l’ascolto di un album come il primo lavoro dei Bachi da Pietra; o addirittura che precedono l’ascolto di tale lavoro. E sì, perché il duo composto da Giambeppe Succi e Bruno Dorella è, pur nella sua uscita silenziosa in un mercato che pare adorare il rumore (bianco) dei vari Vibrazioni e Negramaro, un vero e proprio supergruppo. Giambeppe è il signor Madrigali Magri, autori del trittico delle meraviglie “Lische”/”Negarville”/”Malacarne” – quest’ultimo continua a essere, nella mia testa palpitante e nel mio cuore raziocinante, una delle perle più luccicanti dell’ultimo decennio di musica italiana -, Bruno è a capo della Bar la Muerte e, dopo aver picchiato su tamburi e piatti per conto dei Wolfango, ha trovato la sua dimensione negli stupefacenti OvO e nei Ronin. E proprio alla figura mitica del Ronin, il samurai senza padrone che affastella la storia del Giappone nel suo passaggio da medioevo e età futura – perché praticamente tutte le ere storiche che vi sono nel mezzo sono state spazzate via da queste due istanze – sono apparentabili i nomi di Succi/Dorella, entrambi transfughi da realtà consolidate, alla ricerca (forse) di una nuova purezza, di una nuova linfa.

“Tornare nella terra” è il titolo perfetto, quello che esemplifica senza bisogno di ulteriori spiegazioni non solo il senso di un’operazione musicale ma la stessa urgenza che ne muove gli ingranaggi. La musica è scarna, priva di qualsiasi caratteristica esornativa, e tende alla dissoluzione come la voce bassa e sbiascicata di Giambeppe – eppure così chirurgica nel declamare che “è una guerra e questa è una battaglia/non m’importa se morirò domani” -; non si tratta di un ritorno alla radice del blues, ma bensì di un ritorno dello stesso blues alla radice del suo essere prima di ogni cosa suono. I pochi accenni di chitarra, ossessionanti e impossibilitati a liberarsi definitivamente si sposano alla profondità percussiva che schiaccia tutto trascinandolo giù, in un viaggio sotterraneo che può apparire a un primo disattento ascolto esiziale ma che in realtà è l’unico viatico per una nuova nascita, araba fenice che risorge dalle proprie (e altrui) ceneri.

C’è anche spazio e tempo per una spinta maggiormente ansiogena, come in “Solare”, e per la dilatazione estrema di “Stirpe confusa”, unico istante capace di espandersi – si fa per dire, logicamente – e di permettersi il lusso del silenzio, anche se solo per pochi secondi: perché tutto ciò che è presente in questo lavoro è talmente intessuto della stessa essenza del suono da costringere l’ascoltatore a ricredersi sui compartimenti stagni che l’hanno visto finora approcciarsi a termini come avanguardia, melodia, struttura. I Bachi da Pietra sono in perfetto equilibrio sull’asse, senza intenzione di cadere né da una parte né dall’altra, due menti compenetratesi e soprattutto compresesi e accettatesi.
Un miracolo (italiano).

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