THE RUSSIAN FUTURISTS, Our Thickness (Upper Class, 2005)

Chi l’avrebbe mai detto che dietro il futurismo russo si nascondesse un’anima di soffice velluto pop, pronto a irrobustirsi senza mai perdere un grammo del suo accattivante gusto melodico? Scherzi a parte, il moniker che cela il volto di Matthew Adam Heart non ha nulla a che vedere, nella struttura musicale, con il pensiero e le opere dei vari Majakovskij, Kamenskij, Burljuk – e con le varie derive artistiche come il raggismo di Larionov, il suprematismo di Malevitch e il costruttivismo di Tatlin – e resta dunque un semplice orpello, geniale quel tanto che basta, messo a cappello del progetto.

Canadese di Toronto, Heart ha alle spalle “The Method of Modern Love” e soprattutto “Let’s Get Ready to the Crumble”, l’album che gli ha permesso di varcare definitivamente i confini della madre patria e di portare in giro per il mondo la sua creatura. Creatura che ricorda da vicino, per la struttura circolare dei brani, il rispetto per la melodia nella pur continua e testarda ricerca di nuove vie alla stessa e l’uso di voci e strumenti i Magnetic Fields di Stephen Merritt – Guru del pop contemporaneo, non fosse altro per quell’opera mastodontica che è “69 Love Songs” – e in parte i Flaming Lips.

Qui la materia si fa ancora più definita, abbandonando quasi interamente la bassa fedeltà che caratterizzava buona parte dei lavori precedenti: ne è esempio perfetto l’incipit affidato a “Paul Simon”, con le tastiere che vanno a trovare ciclicamente spazio in un vero e proprio muro di suono compatto e incessante. Il tutto si fa più spezzato, grazie al pianoforte isterico che si scontra con la reiterazione della sezione ritmica e un crescendo vocale trascinante nel dittico “Sentiments vs. Syllables”/”Our Pen’s Out of Ink” con la prima canzone che rappresenta l’aspetto più vicino al rock e la seconda che appare come un pop corettistico alla Beach Boys spezzato e reso futuribile dalla drum machine.

La vena creativa di Heart si dimostra dunque estremamente poliedrica, capace di sposare intenti e soluzioni divergenti quando non apparentemente inconciliabili. L’ascolto preteso è attento, pronto a cogliere le delicate sfumature orchestrali schiacciate dai tempi dispari di “Still Life” quanto il techno-pop falsificato e vagamente country di “Hurtin’ 4 Certain”, l’ipnotico xilofono deforme in contrasto con la batteria distrutta e il cantato aulico di “Why You Gotta Do That Thang?” quanto il Brian Wilson post-atomico nascosto nella semi-marziale “Incandescent Hearts”.

Per concludere poi tutto con due veri e propri pezzi da novanta: il motivetto natalizio disturbato da interferenze, voci filtrate, telefonate e chiacchiere tra amici che caratterizza l’ironica “These Seven Notes”, filastrocca sorridente rimpolpata dalla solita drum machine e soprattutto l’ariosità sorprendente di “2 Dots On a Map”, che sembra un ibrido mostruoso tra i musical della Hollywood dei tempi d’oro e gli anni ’80 discotecari. Solo alla fine di questi dieci pezzi scivolati via uno dopo l’altro è possibile rendersi conto della bellezza dell’insieme e capita, con somma sorpresa, di sentirsi completamente appagati.

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