BRIGHT EYES, Digital Ash In A Digital Urn (Saddle Creek, 2005)

Premettiamo col dire che chi non sopporta Bright Eyes dovrebbe stare decisamente alla larga da questa roba. Il suo modo di cantare – emotivo in maniera quasi irritante – può essere odiato. Ed ecco quindi che nell’intro di “Time Code” arrivano i suoi sospiri. Roba da mandare in travaso di bile anche il più paziente e mentalmente aperto dei detrattori del ragazzino americano. Quasi per assurdo, nel momento in cui Conor Oberst si allontana dal consolidato folk alla Bright Eyes, sforna uno dei dischi più Bright Eyes della sua folta discografia.

C’è l’autocompiacimento, l’autocommiserazione, il pessimismo catastrofico degno delle sue radici emo (si insomma, roba tipo I hate myself and I want to die e blah blah blah) e l’impressionante lirismo, la disarmante onestà e l’affascinante fragilità. Tutto quello che avreste sempre voluto sapere su Conor Oberst ma che non avete mai avuto il coraggio di chiedere quindi, nel meglio e nel peggio. Poco importa che la musica sia quanto di più distante da quanto sempre fatto dall’imbronciato americano. La cosa curiosa è che qualcuno l’ha addirittura definita sperimentale, quando invece si tratta di semplici base di rock elettronico che non aggiungono nulla e anzi, riprendo in maniera quantomeno pedissequa il repertorio di gruppi come Notwist e Postal Service. Del resto, anche Hitchcock ha fatto il suo film più hitchcockiano – “Psycho” – nel momento in cui si è più allontanato dai suoi stilemi.

Forse non il suo migliore lavoro, ma sicuramente un importante pilastro per la sua vicenda musicale. Da ascoltare a cuore aperto per farsi dilaniare dai suoi dolori. Come sempre ma mai con questa forza.

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