“Rubber Factory” è il terzo disco del Black Keys, duo proveniente da Akron (Ohio), cittadina americana famosa per aver dato i natali a Devo e Chrissie Hynde dei Pretenders. Sicuramente non diventerà un posto famoso perché lì ci sono nati Patrick Carney e Dan Auerbach – il primo batterista e secondo cantante e chitarrista – ma dopo aver ascoltato questo disco – terzo della formazione – un po’ stupidamente ci speriamo.
Perché “Rubber Factory” è un disco dalla sorprendente vitalità, che si distacca dalla patina cool e dall’alone di già sentito che impera in quell’accozzaglia di stereotipi che viene considerata “garage” e offre una miscela esplosiva – ma esplosiva sul serio! Questo termine su usa un po’ troppo spesso ma qui è veramente calzante – di blues sotterraneo, rock’n’roll e furia punk. Elementi che potrebbero accomunarli ai White Stripes (due qui, due la… fa sempre quattro no?) se non fosse che questo sfigatissimo combo non goda dell’appeal mediatico e della coolness di Jack White. Che è un ragazzo che sa il fatto suo a sa scrivere ottimo rock’n’roll, ma questo è un altro discorso.
Dicevamo dei Black Keys. Immaginatevi Jimi Hendrix, Sonics e Jon Spencer. Ecco… i Black Keys sono come delle canzoni dei Sonics suonate da Jon Spencer con la potenza incendiaria dell’Hendrix di “Electric Ladyland”. Provate a volare alto con la fantasia e ricordatevi le peculiarità del sound sporco e grezzo della Blues Explosion ai tempi di “Crypt Style” e questo arzigogolato paragone potrà risultare abbastanza chiaro. Sono tredici brani con un groove micidiale e da ottime intuizioni. Un sound bello corposo e una capacità di scrittura sì didascalica – non siamo certo davanti alla rivoluzione copernicana… mai affermato e non so quanto lo si voglia veramente – ma assolutamente fresca e trascinante. Chitarre sporche, fuzz e distorte che si ergono su pattern di batteria martellanti, ossessivi e tremendamente hendrixiani… ergo irresistibili. Tutto qui. Cos’altro serve per fare un gran disco rock’n’roll?
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