Devendra Banhart + Cocorosie, Alpheus (Roma) (8 ottobre 2004)

Esiste un momento, nella vita di ognuno di noi, in cui si sente netto e inconfondibile il contatto con la divinità. Non è necessario essere credenti o meno, non è necessaria una fede specifica; questione di suggestione, si dirà, ed è certo questa la soluzione più plausibile. Resta il fatto che, per un istante, ci sentiamo capaci di comprendere il senso di ciò che ci circonda.

Quest’istante così raro ho avuto occasione di viverlo per circa tre ore stasera all’Alpheus di Roma, locale sito in quel di Ostiense. Sul palco era previsto quel Devendra Banhart che ha stordito e preso alla sprovvista il 2004 componendo “Rejoicing in the Hands”, capolavoro di straordinaria fattura (e che ha da pochissimo dato alle stampe anche l’ottimo “Nino Rojo”). Ad accompagnarlo in tournée Bianca e Sierra Casady, ovvero le Cocorosie. E sono proprio le autrici di “La maison de mon reve” a salire per prime sul palco, con Sierra alla chitarra e Bianca – tra l’altro, per chi ancora non lo sapesse, compagna di Banhart nella vita – impegnata a far uscire suoni da vecchi registratori, giocattoli scassati, metallofoni per bambini.

E qui ci sarebbe bisogno di un lungo inciso: avevo personalmente trovato l’album del duo abbastanza scontato, bello ma stancante, fatato ma incapace di veri e propri voli pindarici. Ebbene, se siete della mia stessa opinione mettetevi una maglietta, un paio di jeans e andate subito ad assistere a un loro concerto. Perché tutto quel mondo mostrato in controluce in studio esplode nella sua grazia e nel suo splendore dal vivo. Le voci si distanziano l’una dall’altra per inseguirsi, intrecciarsi, quella di Sierra potente e calda, quella di Bianca tremante, sussultante e bizzarra, quasi debitrice della classe argentina di Banhart. Mi rendo conto di trovarmi di fronte a una creatura in perenne evoluzione e trasformazione, alla ricerca della simbiosi totale. Suoni campionati, registrazioni di voci, giocattoli, tintinnii si mescolano ai delicati arpeggi di chitarra. Di tanto in tanto la sei corde è sostituita dalle tastiere. E poi, sul palco salgono gli amici: e si raggiunge l’apice del percorso, il mondo viene svelato nella sua completezza. Il folk si sposa al trip hop analogico dell’human-beat, mentre scorie noisy vengono schiaffate via dai registratori, campanacci tibetani si scontrano con la voce lirica di Sierra, il salmodiare sbilenco di Bianca è sostenuto da ectoplasmi vocali dei nativi americani. Una macchina giocattolo rimanda un misto di sirene della polizia e giostra in disfacimento. E l’arpa si eleva sul tutto, con le sue timbriche cristalline. Il Wu Tang Clan che va a lezione dall’Incredible String Band, il moderno e l’antico che si mescolano e convivono trovando nuove vie d’espressione (non sarà l’ultima volta durante la serata).

Dopo aver ringraziato il folto pubblico – la sala è stipata fino all’inverosimile – le Cocorosie ci abbandonano. Io sono estasiato, vicino al palco, incapace di esprimere la gioia e la pace che ho ricevuto da queste due ragazze americane adottate dalla Francia. So che ho passato il concerto a dividermi tra i video che passavano sullo schermo e la bellezza di Bianca, talmente affascinante negli sguardi e nell’interpretazione da stregarmi completamente. E pensare che la serata vera e propria deve ancora cominciare! Dopo una presentazione delle serate da parte di Radio Città Futura ecco che Devendra Banhart sale sul palco. Si assesta sulla sedia, afferra la sua chitarra e parte con “This is the Way”, straordinaria per esecuzione e intensità emotiva. Il primo pensiero è quello di trovarmi di fronte a un grande cantautore folk. Dio mio, quanto sono lontano dalla verità! Quando sorridendo sornione il ragazzo afferma che stasera si suonerà della “Black Music” tutti credono che si tratti di una bonaria burla. In realtà, accompagnato da un supergruppo (membri dei Jackie-O Motherfucker, Little Wings, Vetiver) Devendra si getta in un riassunto della musica da lavoro di tutti i tempi: dunque anche il folk, certo, ma anche e soprattutto il soul, il reggae, il dub.

La band suona perfettamente, sembra conoscersi da sempre – in realtà saprò in seguito che hanno provato solo per una settimana i brani della scaletta -, Devendra canta come un angelo sghembo e lascia il giusto spazio a tutti, facendo anche interpretare a Andy Cabic la splendida “Oh Papa” direttamente dal repertorio dei Vetiver. Quando poi si lanciano in cavalcate sonore come quella che conclude una strepitosa – e idolatrata dalla folla – “This Beard is for Siobhan”, i cinque raggiungono vette difficilmente immaginabili. Il pubblico è scatenato e trasmette una carica continua ai musicisti, che si divertono, si mettono a scherzare tra loro e il pubblico, tirano fuori quell’ironia fanciullesca che gli album di Banhart trasudano da ogni nota. Sembra di assistere al concerto di fine anno del gruppetto del liceo! Un ragazzo sale sul palco per regalare al cantautore un delfino viola di peluche, e lui inizia a cantare strofe solo su questo nuovo amore inanimato, se lo infila a forza nella camicia e non lo abbandonerà per il resto del concerto.

La musica sembra seguire un suo percorso strettamente emotivo, come se ci si muovesse solo sull’onda delle sensazioni, delle good vibrations, per dirla alla Beach Boys. Oramai il pubblico ha raggiunto lo zenith del suo orgasmo musicale, e concede a Banhart qualsiasi digressione. La band ha portato sul palco un enorme simbolo della pace e ora lo fa girare sulla testa del pubblico, tra la soddisfazione del chitarrista dei Jackie O-Motherfucker che si lancia a sua volta sulla gente, abbracciato e sollevato prima di far ritorno sul palco. Il concerto si avvia alla conclusione, tra preziosismi vocali e crescendo illuminanti. Si finisce da dove si era cominciato, con una versione dixie di “This is the Way”. La musica è un cerchio che si chiude, un’esperienza umana capace di trasformarsi, per l’istante che ti è necessario, in divinità. Devendra Banhart, la sua band e le Cocorosie sono gli dei di questo mio istante. Quanto durerà non sarò certo io a deciderlo.

A concerto finito vorrei scambiare due chiacchiere con Devendra, ma lo incrocio solo per un attimo: ho il tempo di parlare con il bassista, che dopo aver esordito con un eloquente “I Know, I Know…I’m Drunk!” si lancia in un discorso improbabile e contorto sullo yoga. Poco dopo, a un paninaro da strada incrocio anche il chitarrista dei Jackie O-Motherfucker. Dice che Devendra ieri a Ferrara ha cantato male, gli mancava la voce…oggi invece era in gran forma. Parla della preparazione della tournée, della sua band da diciassette membri. Poi ci separiamo. E’ notte su Roma, una notte che probabilmente non significherà molto per nessuno. Una notte che passerà alla storia, che lo vogliate o no.